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La VOCE 1702 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XIX N°6 | febbraio 2017 | PAGINA 2 |
IN QUESTO NUMERO:Roberto Gessi |
Il fallimento del Jobs Act![]() E’ ormai chiaro che, rispetto all’obiettivo dichiarato (accrescere l’occupazione), il Jobs Act si è rivelato fallimentare. Il provvedimento, che ha introdotto contratti a tutele crescenti (frequentemente ed erroneamente definiti a tempo indeterminato) è stato accompagnato da ingenti sgravi contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Secondo la propaganda governativa, si sarebbe fatta marcia indietro rispetto alle misure di precarizzazione del lavoro messe in atto con intensità crescente negli ultimi decenni. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che ha semmai reso le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (ma rende più difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio), sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In più, contrariamente agli obiettivi dichiarati, si è accentuato il dualismo del mercato del lavoro italiano, inserendo una inedita cesura – datata 7 marzo 2015 – fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti. Come da più parti previsto, si è trattato di un provvedimento del tutto inefficace, e per alcuni aspetti controproducente, per la crescita dell’occupazione. Dopo un aumento dell’occupazione ‘a tempo indeterminato’, evidentemente determinato dalla convenienza da parte delle imprese a riconvertire i contratti per avvalersi della detassazione, riducendosi i fondi pubblici per gli sgravi fiscali alle imprese, si è registrata una rapidissima inversione di tendenza: è aumentato il tasso di disoccupazione e i contratti sono diventati sempre più precari. In sostanza, si è trattato di un’operazione che ha temporaneamente “drogato” il mercato del lavoro italiano. Nulla più di questo, se non si fosse trattato di un vero e proprio spreco di risorse pubbliche per un obiettivo non raggiunto e verosimilmente non raggiungibile con gli strumenti utilizzati. Terminata questa fase, ci si ritrova in una condizione sotto molti aspetti peggiore della precedente, una triste eredità del Governo Renzi, per due ordini di ragioni. 1.Secondo le ultime rilevazioni ISTAT, il tasso di disoccupazione, in Italia, torna nel 2016 a quasi il 12%, dopo una leggera flessione nel 2015, attestandosi a oltre due punti percentuali in più rispetto alla media europea (11.9% a fronte del 9.8%). Si registra anche una significativa riduzione del numero di inattivi, fenomeno che, di norma, viene valutato positivamente come segnale di dinamismo del mercato del lavoro. Si tende, cioè, a ritenere che una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro sia, di per sé, desiderabile. E’ bene chiarire che è, questa, una valutazione che riflette una visione del funzionamento del mercato del lavoro interamente declinata ‘dal lato dell’offerta’: in altri termini, più forza-lavoro disponibile dovrebbe implicare maggiore occupazione. Il che non è nei fatti, né oggi in Italia né è quasi mai accaduto da quando il fenomeno è oggetto di rilevazione statistica. La riduzione del numero di inattivi, se letta in chiave macroeconomica, può non essere affatto un segnale di vitalità del mercato del lavoro e, in più, può essere il segnale di un meccanismo niente affatto virtuoso. Ciò a ragione del fatto che la riduzione del numero di inattivi è associato a un fenomeno noto come ‘effetto del lavoratore aggiunto’: in fasi recessive e di caduta della domanda di lavoro, con conseguente riduzione dei salari reali, entrano nel mercato del lavoro altri componenti dell’unità familiare per provare a garantire all’unità familiare il livello di consumi considerato ‘normale’. Il che significa che la riduzione del numero di inattivi è innanzitutto un segnale di impoverimento dei lavoratori occupati e, al tempo stesso, di erosione dei risparmi delle famiglie (dal momento che una condizione di inattività è consentita solo attingendo a redditi non da lavoro). Vi è poi da considerare che l’aumento del numero di individui alla ricerca di lavoro, accrescendo la concorrenza fra lavoratori, contribuisce a ridurre i salari, in una spirale perversa per la quale la domanda interna continua a contrarsi, così come la domanda di lavoro e dunque i salari e i consumi. In altri termini, l’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro è l’effetto della caduta dei salari e, al tempo stesso, contribuisce a generarla. 2. Il Jobs Act ha contribuito alla precarizzazione del lavoro anche per mezzo dell’estensione della platea di lavoratori pagati con buoni lavoro (voucher), per ogni settore produttivo e committente. I buoni lavoro, già presenti nella c.d. Legge Biagi, erano stati pensati per remunerare mansioni accessorie e occasionali, spesso prestate in condizioni di illegalità. Tipicamente: lavori domestici saltuari, badanti. Occorre ricordare che il lavoro con voucher non configura un contratto di lavoro e, per questa ragione, non dà al lavoratore diritto a ferie, maternità, né, in caso di non rinnovo del rapporto, si configura un licenziamento[1]. Il risultato dell’estensione della platea di potenziali beneficiari è impressionante: nel corso del 2016, sono stati staccati 115 milioni di tagliandi, coinvolgendo circa 700 mila lavoratori (a fronte di 25mila nel 2008) per un importo complessivo stimato intorno agli 800 milioni di euro. La recente decisione della Consulta di consentire il referendum abrogativo dei voucher (uno dei tre proposti dalla CGIL) va accolta con favore, sebbene si tratti di una decisione opinabile e oggetto di critiche (http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=27177), avendo impedito ai cittadini italiani di esprimersi contro l’abolizione dell’art.18. I buoni lavoro costituiscono la nuova frontiera del precariato, e ogni azione di contrasto al precariato è da valutare positivamente sia per garantire dignità al lavoro, sia perché è ampiamente mostrato – sul piano teorico ed empirico - che la precarizzazione del lavoro non accresce l’occupazione, riduce la quota dei salari sul Pil, ed è un freno alla crescita[2]. E’ lo stesso Governo ad ammettere che l’uso dei voucher va maggiormente regolamentato a ragione del fatto che di questo strumento le imprese avrebbero “abusato”. Ma è lo stesso Governo a continuare a reiterare l’argomento (falso) per il |
quale i buoni lavoro sono uno strumento efficace per contrastare il lavoro nero. Per decretare la falsità di questo argomento, può essere sufficiente considerare che, su fonte ISTAT, l’incidenza del sommerso sul Pil è costantemente aumentata negli ultimi anni, pur essendo stato fornito alle imprese lo strumento dei buoni lavoro. Ed è proprio l’ISTAT a imputare l’aumento del sommerso all’aumento del tasso di disoccupazione – non all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, come nell’interpretazione governativa e dominante – in linea con la posizione dell’INPS[3]. E’ poi interessante osservare che, su fonte INPS, l’uso dei voucher è maggiormente diffuso al Nord (fatta eccezione per il boom di voucher venduti in Sicilia), dove, per le informazioni di cui si dispone, è normalmente minore l’incidenza del lavoro sommerso o irregolare. Il che potrebbe dipendere dalla maggiore numerosità di imprese lì localizzate e dalla loro crescente propensione a competere comprimendo i salari e accelerando (grazie alla massima flessibilità sui tempi garantita dai voucher) i tempi di produzione e vendita. E, per quanto attiene l’offerta di lavoro, è ragionevole ipotizzare che in quell’area sia presente, e in crescita, una platea di lavoratori disposti a lavorare a qualsiasi condizione. Il che, a sua volta, può innescare un fenomeno irreversibile. Lavoratori che hanno accettato di essere pagati con voucher saranno evidentemente considerati dalle imprese lavoratori disponibili a erogare le loro prestazioni con i minimi diritti in un ‘gioco al ribasso’ che i meccanismi spontanei di mercato non frenano, anzi promuovono. NOTE [1] La letteratura accademica sul fenomeno, per quanto attiene all’Italia, è ancora molto scarna. Per un inquadramento generale del fenomeno si rinvia a D. Serafin, V come voucher. La nuova frontiera del precariato, Report “Possibile”, novembre 2016. [2] Per una ricostruzione del dibattito, si rinvia, fra gli altri, a G.Forges Davanzati e G.Paulì, Precarietà del lavoro, occupazione e crescita economica, “Costituzionalismo”, 2015 n.1. [3] V. C. De Gregorio e A. Giordano, The heterogeneity of irregular employment in Italy, ISTAT working paper n.1 2015. (12 gennaio 2017) Art. 18: una decisione politica a favore del capitale e del suo governoLa classe dominante non permette più che si voti sulle questioni cruciali che attengono i rapporti fra capitale e lavoro, mentre continua a imporre governi non eletti (siamo al quarto consecutivo). I diritti elementari dei lavoratori – come la reintegra in caso di licenziamento illegittimo - sono calpestati in nome della pienezza dei diritti di una minoranza di sfruttatori e parassiti. Questa decisione mostra chiaramente che la cosiddetta "divisione dei poteri" fra i vari organi della Repubblica è solo unillusione. La Corte Costituzionale vanificando il referendum sull’art.18 ha soddisfatto il governo, i padroni, il PD e le destre. E un altro passaggio del processo di trasformazione reazionaria dello Stato, che non si è arrestato dopo il referendum del 4 dicembre. Le sentenze pronunciate dai giudici in questi ultimi mesi in tema di diritti dei lavoratori (processo sull’amianto alla Pirelli, decisione della Cassazione sui licenziamenti) dimostrano a quale legge soggiace il diritto del lavoro nella società borghese: alla realizzazione del massimo profitto, vero motore del capitalismo monopolistico. In nome di questa legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo si sfruttano a sangue, si licenziano e si mandano in miseria milioni di lavoratrici e lavoratori, si saccheggiano le risorse dei popoli dei paesi dipendenti, s’intraprendono guerre di rapina e si militarizza la società per gli interessi delle classi possidenti. I vertici della CGIL hanno illuso i lavoratori di poter riprendere per via referendaria quello che non hanno voluto difendere con la lotta intransigente. Ora annunciano un ricorso alla Corte europea, invece di dichiarare la lotta a oltranza per far cadere il governo reazionario e neoliberista di Gentiloni. E’ l’ennesima dimostrazione del fallimento politico e sindacale del riformismo che predica l’abbandono della lotta di classe per affidare la sorte dei proletari alle istituzioni borghesi, strumento di oppressione dei lavoratori e di garanzia dello sfruttamento padronale. In questa situazione non possiamo certo limitarci ad andare a votare Sì ai referendum approvati su voucher e appalti (se non saranno l’ennesima merce di scambio per la burocrazia sindacale), ma dobbiamo anzitutto ribadire una verità storica: l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi! Non vi è nessun’altra forza che può sostituirsi al moderno proletariato nella sua funzione rivoluzionaria e trasformatrice. Oggi più che mai la classe operaia, i lavoratori sfruttati hanno bisogno di unità, di coesione e di lotta per respingere la brutale offensiva capitalista e dei poteri della vecchia società borghese, risalire la china e riprendere la strada della rivoluzione e del socialismo, per assicurare che la produzione sia organizzata a beneficio dei lavoratori e non dei profitti di una minoranza di capitalisti. La lotta e l’indipendenza di classe, il fronte unico proletario e un’ampia coalizione popolare sono le armi per difenderci efficacemente dal padrone e dei suoi servi, per sconfiggere la reazione politica e la politica di guerra imperialista. Il Partito comunista è lo strumento indispensabile per la conquista di un governo che spezzi il potere dei capitalisti e dei miliardari con la nazionalizzazione socialista delle industrie, delle banche, della grande distribuzione, della terra posseduta dai latifondisti e realizzi un’economia pianificata basata sui principi socialisti. Rilanciamo la lotta contro i licenziamenti per il profitto e i licenziamenti politici. Ogni licenziamento deve diventare una barricata della lotta di classe! Se toccano uno toccano tutti! Aumentiamo la pressione dalla base per organizzare scioperi duri e unitari a sostegno delle rivendicazioni di classe. Costruiamo Comitati operai e popolari per difendere i nostri interessi. Via il governo Gentiloni, amico dei padroni e delle banche, nemico dei lavoratori! Comunisti, operai d’avanguardia, giovani rivoluzionari, organizziamoci in Partito! 12 gennaio 2017 |
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