L'esigenza di una nuova concezione del mondo
e il problema di una nuova cultura
di Ludovico Geymonat.
1. Considerazioni preliminari.
Abbiamo avuto modo di constatare nel corso della nostra esposizione storica che tutti o quasi tutti i grandi filosofi del passato tentarono di abbozzare una concezione integrale dell'universo, includente in sé tanto il mondo naturale quanto il mondo umano. Ciò vale anche per quei filosofi che ritennero di dover contrapporre l'uno all'altro di questi due mondi perché, proprio al fine di giustificare tale contrapposizione, essi dovettero delineare una concezione di entrambi esplicitando le differenze e i rapporti, il che equivaleva in ultima istanza a collocarli, sia pure in posizioni ben distinte, entro un unico quadro generale.
In taluni casi l'unità di questo quadro fu ottenuta con l'introduzione di un ente supremo trascendente, considerato come causa prima e/o fine ultimo di tutti gli esseri umani; in altri casi essa venne ricondotta all'attività categoriale del soggetto pensante (inteso ovviamente come soggetto trascendentale, non empirico) cui risalirebbero in ultima istanza l'ordine che noi riscontriamo nei fenomeni, fisici e psichici; in altri ancora venne fondata sulla materia stessa, interpretata quale realtà obiettiva (cioè irriducibile al soggetto che la conosce) e considerata come capace di dare origine, con la sua evoluzione interna, alla totalità degli esseri sia inorganici sia organici (e, come caso particolare di questi ultimi, a quelli provvisti di vita psichica).
Anche la scienza, fino almeno a tutto il Settecento, partecipò attivamente alla elaborazione della visione globale dell'universo, contribuendo di volta in volta in modo determinante alla vittoria di una concezione in luogo di un'altra; si pensi per esempio alla scienza aristotelica, a quella cartesiana, e a quella newtoniana. Il suo apporto più importante fu comunque l'affermazione dell’effettiva conoscibilità dell'ordine che regna nei fenomeni naturali, per lo meno limitatamente ad alcuni settori particolari.
I notevolissimi successi ottenuti con l'osservazione e con il calcolo vennero infatti considerati come prove della potenza della ragione umana ed ebbero pertanto la funzione di stimolare filosofi e scienziati a proseguire le indagini sulla struttura dell'universo malgrado le difficoltà incontrate nella grandiosa impresa.
Stando così le cose, la sottovalutazione programmatica di tali successi costituì, come abbiamo notato più e più volte, il primo passo di pressoché tutte le forme di irrazionalismo. Nell'ambito delle stesse filosofie irrazionalistiche si è visto tuttavia che occorre operare, per quanto riguarda il problema di una concezione generale dell'universo, una netta distinzione fra due indirizzi notevolmente diversi fra loro. Un primo tipo di irrazionalismo prende le mosse dalla critica delle conoscenze scientifiche per contrapporvi un'altra forma di conoscenza, sovra razionale, ottenibile per rivelazione divina o per intuizione diretta dell'essenza della realtà; esso non rinnega l'importanza di una concezione globale dell'universo, ma afferma che questa non è raggiungibile con il semplice strumento della ragione. Un secondo tipo è invece più radicale: non si limita infatti a respingere il valore conoscitivo della scienza (e più in generale di ogni procedimento razionale), ma sostiene che il vero compito dell'uomo non è quello di comprendere l'universo, bensì di arricchire e affinare la propria vita interiore.
Non è il caso di ripetere qui che, a nostro parere, ambedue i tipi testé accennati di irrazionalismo (in ispecie il secondo) non hanno compiuto altra funzione, entro il tormentato sviluppo del pensiero, se non quella di richiamare ai filosofi e agli scienzati i pericoli derivanti da un’affrettata e superficiale fiducia in certe forme, rigidamente determinate, di argomentazioni razionali. Senza negare l'importanza di tali richiami, abbiamo tuttavia constatato che in ogni epoca l'umanità è riuscita a progredire non già accedendo alle tentazioni irrazionalistiche, ma traendo sprone da esse per correggere e approfondire le procedure fin allora usate dalla ragione.
Uno stimolo ben più efficace venne tuttavia fornito da altri conflitti: non fra razionalismo e irrazionalismo, ma fra forme diverse di irrazionalismo che proponevano concezioni del mondo a volte tra loro antitetiche. Ricordiamo, a semplice titolo di esempio, il conflitto fra la concezione atomistico-meccanicistica di Democrito e quella teleologica di Platone e di Aristotele nell'antica Grecia; il conflitto fra neoplatonismo e aristotelismo nel rinascimento; quello, esploso all'inizio dell'Ottocento, tra approccio quantitativo newtoniano e approccio qualitativo goethiano allo studio dei fenomeni naturali. Che si tratti di conflitti concernenti la concezione generale del mondo è evidente, ed è altrettanto risaputo che essi furono straordinariamente fecondi per lo sviluppo del pensiero umano.
A conferma dell'importanza che sempre ebbero gli studi e i dibattiti intorno alla concezione del mondo, vogliamo ancora aggiungere due argomenti.
In primo luogo è necessario sottolineare che i mutamenti di tali concezioni esercitarono una profonda influenza non solo nell'ambito dei problemi conoscitivi ma spesso anche in quello dei problemi etici. Basti pensare a ciò che significò accogliere una concezione del mondo non più imperniata sulla missione di un essere divino trascendente (in particolare al nuovo senso che questo mutamento diede alle categorie tradizionali di libertà e di responsabilità); oppure pensare alle conseguenze che si ricavarono in campo etico e politico dal concepire il mondo non più come sottoposto a un ordine assoluto e perenne, ma come un ininterrotto divenire che si realizza attraverso modalità diverse, sempre relative a ben determinate situazioni storiche (non senza motivo Marx ed Engels ritennero che una concezione dialettica della realtà offre la più solida base all'azione rivoluzionaria).
In secondo luogo ricorderemo che proprio l'esame delle concezioni del mondo (e delle loro variazioni) ha sempre fornito lo strumento più efficace per evidenziare il nesso fra struttura e sovrastruttura. Se è vero infatti, come sostenne Marx, che i fattori determinanti delle trasformazioni culturali sono in ultima istanza di ordine pratico, vero è però che l'azione di questi fattori risulta ben difficilmente individuabile se si prendono in considerazione settori troppo circoscritti dell'attività teoretica. Chi si fermi per esempio a esaminare il mero susseguirsi delle teorie matematiche (o fisiche o chimiche ecc.) dovrà ricorrere ad argomentazioni estremamente artificiose per mostrarne la diretta dipendenza dalle strutture economico-politiche che caratterizzano le varie epoche, mentre il suo lavoro risulterà enormemente facilitato se ricorrerà alla mediazione delle concezioni del mondo dominanti nelle epoche considerate. Se invero inquadrerà la storia delle singole teorie scientifiche, in una storia più generale, tenendo conto per esempio dei mutamenti realizzati, nella concezione del mondo, al trapasso dal medioevo al Rinascimento, al secolo dei lumi ecc., comprenderà subito con chiarezza - come cercammo di mostrare nel corso della nostra trattazione - che anche le scienze settoriali rispecchiarono sempre, perlomeno nella loro impostazione, le esigenze più profonde via via emerse nell'ambito della prassi. In altri termini: è una considerazione globale del pensiero filosofico scientifico a farci scoprire il legame in questione, non una considerazione settoriale di esso (considerazione, quest'ultima, la quale conserva ovviamente un vivo interesse, ma da un altro punto di vista: cioè per chi voglia limitarsi a studiare la dinamica interna delle singole scienze e dei metodi ideati per farle progredire). Quanto ora accennato ci aiuta, fra l'altro, a renderci conto delle singolari difficoltà che si incontrano allorché cerchiamo di esplicitare il nesso anzidetto in riferimento all'epoca presente, proprio perché questa sembra caratterizzata da un disinteresse generale per il problema della concezione del mondo. Con la presunta scomparsa di questo problema viene infatti a mancare il principale elemento di mediazione fra la struttura economica della società e la sovrastruttura rappresentata dalle ricerche scientifiche.
Riservandoci di tornare più ampiamente, in seguito, sull'argomento, vogliamo subito far rilevare il pesante conservatorismo che si cela nella tesi, oggi tanto diffusa, che l'uomo moderno non abbia più bisogno di alcuna concezione del mondo.
A nostro parere essa tende in realtà ha due scopi: per un lato a evitare che le istanze innovatrici, che sommuovono la sfera della prassi, pervengano a far sentire la loro influenza (mediata nel modo cui si è fatto cenno) sull'impianto delle ricerche scientifiche particolari; per altro a evitare che la cultura nella sua globalità venga coinvolta dalla seconda dinamica in atto nelle singole discipline. I riflessi generali di questo conservatorismo sono così evidenti, che non è il caso di fermarci a illustrarli.
Cercheremo nei prossimi paragrafi di discutere quali sono le considerazioni che sogliono venire adottate a sostegno della tesi testé accennata. Il problema ci porterà a riprendere in esame un fenomeno che abbiamo già più volte analizzato - quello della chiusura specialistica della scienza - e che abbiamo ripetutamente indicato come uno dei pericoli più gravi della nostra cultura. Ora però non si tratta più soltanto di studiarlo da un punto di vista storico ma anche teoretico; si tratta cioè di capirne le motivazioni di fondo, per cercare gli strumenti atti a farcelo superare. Se le riflessioni storiche debbono servire a farci penetrare i maggiori nodi del pensiero contemporaneo, ora è giunto il momento di avvalerci di esse per trarne un orientamento a risolvere le più caratteristiche difficoltà in cui si dibatte tale pensiero.
Lo specialismo delle ricerche scientifiche e alcune sue conseguenze.
Come abbiamo testé accennato, e come venne più volte posto in luce nei volumi precedenti, una delle più gravi crisi della cultura moderna è senza dubbio connessa all'affermarsi dello spirito specialistico in pressoché tutte le ricerche scientifiche: e non solo - è bene sottolinearlo esplicitamente - in quelle delle scienze propriamente dette (matematica, fisica, biologia) ma anche nelle ricerche storiche, filologiche, economiche e così via.
Se riflettiamo al fatto che questa tendenza cominciò a diffondersi in Francia all'inizio dell'Ottocento per estendersi poi, entro breve tempo, a tutti gli altri Paesi del continente in concomitanza al loro sviluppo economico-borghese, siamo indotti a riconoscere che essa doveva costituire un frutto diretto delle trasformazioni sociali allora in via di attuazione in tali Paesi. In effetti non faceva che riprodurre - entro l'organizzazione delle ricerche - una delle più tipiche situazioni riscontrabili nella nascente industria: la suddivisione del lavoro.
Il parallelismo testé accennato è servito a spiegare, o perlomeno ad evidenziare, alcune conseguenze sia positive che negative della specializzazione della ricerca: ad esempio l'incremento, da essa favorito, della "produttività scientifica chiusa" "analogo all'incremento realizzato dall'industria nella produzione delle merci; e, per contro, la diminuzione di interesse che a poco a poco si crea nel singolo ricercatore per il corpus generale della scienza, in un certo senso analoga a quella che viene a crearsi - per il processo generale della produzione - nel singolo operaio cui la parcellizzazione del lavoro impedisce di raggiungere una visione globale di tale processo.
Il parallelismo in parola non può tuttavia costituire che è un primo avvio all'analisi del fenomeno in esame. In realtà i vantaggi della specializzazione non sono soltanto dovuti al fatto che è una precisa delimitazione dei campi di indagine che permette al singolo ricercatore di assimilare in breve tempo tutte le tecniche ivi solitamente applicate e quindi metterle subito a profitto dell'indagine stessa, senza disperdere le proprie energie in mille direzioni; essi dipendono anche, e soprattutto, dal fatto - di cui non si trova l'analogo nell'industria - che con le ricerche specialistiche nascono anche i linguaggi artificiali appositamente costruiti per denotare tutte e sole le proprietà che si vogliono prendere in considerazione nei fenomeni indagati; linguaggi, i quali favoriscono in misura notevolissima l'esattezza delle espressioni, il rigore dei ragionamenti, la chiarificazione dei principi ultimi che stanno alla base delle singole teorie. Come sappiamo, è stata proprio questa "tecnicizzazione linguistica" delle singole discipline (dalla logica alla matematica, dalla fisica alla chimica ecc.) che le ha poste in grado, nell'Ottocento, di superare agevolmente alcune gravissime difficoltà che avevano fermato i grandi scienziati del secolo precedente.
Ma in tale "tecnicizzazione linguistica" si radica pure il primo e più importante aspetto di quel complesso fenomeno di "chiusura" che si è pericolosamente accompagnato, per lungo tempo, al processo di specializzazione. Ed invero sono stati proprio il grado stesso di serietà che questo processo imprimeva alle singole discipline e la ricchezza di risultati concreti che consentiva di raggiungere, a far sorgere nello "scienziato specialista" una fiducia così dogmatica nel suo tipo di lavoro, da non permettergli nemmeno di porsi il problema se esso necessitasse di una qualche integrazione o di un coordinamento con il lavoro dei ricercatori impegnati in altri campi d’indagine (anche per le effettive difficoltà di controllare l'autentico rigore delle argomentazioni svolte con linguaggio diverso dal proprio).
Ne segue - e questa tesi potrebbe venire confermata da parecchi esempi storici - che ogni disciplina tenderà a svilupparsi per proprio conto, senza legami sistematici con le altre, dando così luogo a un mosaico di risultati, ove non è rintracciabile alcun disegno fornito della benché minima organicità. Si tratta della situazione caotica che - come ricordammo nel capitolo VI del volume ottavo - David Hilbert riteneva ormai vittoriosa in tutte le scienze della natura, e da cui voleva vedere risparmiata per lo meno la matematica: situazione che conduce il singolo scienziato (o il singolo gruppo di scienziati) ad un isolamento via via maggiore, in quanto lo fornisce di un linguaggio, di una problematica e di una metodologia, del tutto incomprensibili a chi non coltiva la stessa specialità.
Stando così le cose, è chiaro che la diffidenza testé accennata del ricercatore specialista non potrà non rivolgersi, in modo particolare, contro il filosofo, giudicato non capace di altro fuorché di discorsi vaghi e inconcludenti. Ed è perfettamente naturale che, in una situazione del genere, il filosofo ricambierà lo scienziato con un atteggiamento pressoché analogo, ove riaffioreranno d'un tratto tutti i vecchi pregiudizi circa la superiorità del "pensiero puro" rispetto al "lavoro manuale" (categoria quest'ultima che finisce per venire estesa dall'ambito della mera tecnica a quello della stessa scienza, ormai prevalentemente impostata in forma specialistica).
Come notammo più volte, l'illusione di poter elaborare un “sapere filosofico” del tutto sganciato dal "sapere scientifico" affonda proprio qui le sue radici: a ben guardare le cose, è una divisione di compiti che non di rado appare altrettanto gradita allo scienziato quanto al filosofo. A giudizio del primo, la scienza si occuperebbe di problemi seri mentre la filosofia non farebbe che della retorica magniloquente; a giudizio del secondo, la sola filosofia sarebbe in grado di affrontare i grandi problemi dell'essere e del conoscere mentre la scienza resterebbe schiava del particolare e, in ultima istanza, non potrebbe proporsi altro scopo se non quello di rispondere adeguatamente ai problemi via via sollevati dalla tecnica.
Non dobbiamo stupirci che, una volta suddivisi fra loro i compiti nel modo testé accennato, sia gli scienziati sia i filosofi non dimostrino più alcun autentico interesse per il problema della concezione del mondo: gli scienziati perché esso fuoriesce ovviamente dall'ambito di una qualsiasi ricerca specialistica, i filosofi perché sono consapevoli di non poterlo discutere senza tenere conto degli ultimi risultati delle scienze (salvo a parlarne in termini antiquati, che non sono più in grado di dire alcunché alla cultura contemporanea) . È una rinuncia che può apparire di scarso conto a molti studiosi, ma che in verità costituisce uno dei fatti più gravi per il pensiero filosofico-scientifico della nostra epoca.
Essa sta alla base della famosa credenza nella "neutralità" della scienza, che è anzitutto "neutralità teoretica", cioè "neutralità rispetto alla filosofia"; è rifiuto di ammettere che la scienza possa comunque compromettersi in problemi non strettamente scientifici. Poiché la ricerca di una concezione coerente del mondo aveva tradizionalmente costituito un sicuro punto di convergenza degli interessi sia dei filosofi sia degli scienziati, l'abbandono di tale ricerca doveva rappresentare - come di fatto rappresentò - il passo obbligato per sostenere la tesi del totale disimpegno filosofico di ogni indagine scientifica.
Riservandoci di tornare più diffusamente su questo tema nel paragrafo V, vogliamo subito far presente che la “disponibilità” dello scienziato a lasciarsi strumentalizzare da chiunque e per qualunque scopo (disponibilità spesso considerata come l'espressione più tipica dell'atteggiamento pericolosamente "neutro" del ricercatore moderno) non ha - come si è soliti ritenere - un carattere primario ma è una conseguenza diretta della “neutralità teoretica” or ora accennata.
Ed infatti, se fosse vero che i risultati conseguiti nell'ambito di un settore specialistico non esercitano la benché minima influenza sul nostro modo di concepire l'uomo e il mondo, se fosse vero che l'unico compito della ricerca scientifica è quello di risolvere i quesiti pratici via via sollevati dalla tecnica, perché mai dovremmo attenderci dallo scienziato, in quanto tale, una seria discussione (generale proprio perché seria) dei fini in vista dei quali verranno utilizzate le soluzioni da lui proposte agli anzidetti quesiti? Una discussione di questi fini, se anche lo interessa, lo potrà interessare solo come uomo, non come ricercatore esclusivamente impegnato in un circoscritto campo di indagini. In altri termini: se fosse vero che lo sviluppo della scienza lo porta necessariamente a frantumarsi in tanti settori - isolati l'uno dall'altro dal punto di vista teoretico, privi cioè di qualsiasi incidenza, fuorché pratica, al di là dei propri confini - il punto di approdo di tale sviluppo non potrebbe essere altro che la più completa neutralità, anche in campo etico-politico.
La metodologia come primo passo per superare la chiusura dello specialismo.
Già accennammo più volte nel corso della nostra trattazione che in tempi recenti gli stessi scienziati hanno cominciato a prendere atto degli effetti negativi del puro specialismo. Uno dei fattori che ha maggiormente contribuito a questa loro consapevolizzazione è stato senza dubbio il rinnovato interesse sorto in essi per i problemi metodologici.
Va notato che questo interesse ha potuto assumere un peso via via più notevole, a partire dalla fine del secolo scorso, perché sorto all'interno della stessa scienza, nel preciso intento di risolvere le gravi difficoltà di principio emerse proprio dallo sviluppo delle ricerche specialistiche. Le due discipline che per prime si imbatterono in difficoltà del genere furono la matematica e la fisica. Gli strumenti che si rivelarono indispensabili per rimuoverle sono stati, come sappiamo, la logica matematica per un lato, e per l'altro l'analisi delle categorie solitamente usate nella descrizione dei fenomeni (in particolare l'analisi delle categorie acriticamente trasferite dalla descrizione del mondo macroscopico a quella del mondo atomico e subatomico). Non è difficile comprendere i motivi per cui la riflessione metodologica diede un contributo fondamentale al superamento dello specialismo.
In primo luogo essa indusse gli scienziati a meditare sul significato esatto dei concetti fino ad allora usati e dei metodi solitamente addotti per giustificare le prospettive primitive o dimostrare quelle derivate. Sebbene i primi passi compiuti in tale direzione non siano stati subito del tutto soddisfacenti, è chiaro che essi favoriscono la nascita di una mentalità nuova, non più rivolta unicamente alla scoperta di qualche risultato particolare, ma all'acquisizione di una consapevolezza critica incompatibile con il dogmatismo di fondo del ricercatore di tipo ottocentesco chiuso nella propria specialità.
Un effetto ancora più importante della riflessione metodologica è stato lo stimolo impresso a confrontare fra loro le strutture delle varie scienze discutendo la liceità di ridurre una teoria (secondaria) a un'altra (ritenuta primaria) o anche solo di utilizzare i risultati raggiunti da una di esse al di fuori del campo in cui erano stati dimostrati; a precisare scrupolosamente le analogie e le differenze - a volte assai recondite - dei principali addotti a sostegno delle singole teorie; a valutare il significato della o delle generalizzazioni ecc.
Che questo atteggiamento imponesse al ricercatore di guardare in settori estranei al proprio, è cosa ovvia. Ma vi è di più: esso gli imponeva di riesaminare con spirito nuovo tutto ciò che per l'innanzi gli era parso intuitivo, evidente, indiscutibile. E un tale riesame richiedeva manifestatamente un attentissimo studio comparativo fra i linguaggi delle singole scienze e il linguaggio (per lo più impreciso ed equivoco) usato nella vita quotidiana, al fine di stabilire ciò che quelli avessero inavvertitamente mutuato in modo dogmatico da questo. Così la ricerca scientifica veniva calata in un campo enormemente più vasto, ove ogni chiusura preconcetta si rivelava gravemente pericolosa.
Per dare un'idea del sommovimento generale creato da questo singolare tipo di indagini, ricapitoleremo alcuni fra i più significativi risultati da esse conseguiti.
1) Si è scoperto che una qualsiasi scienza è costituita, non già dal semplice accostamento di più proposizioni, ma da complessi sistemi di enunciati, che vi compaiono gerarchicamente ordinati in proposizioni primitive (o postulati, o assiomi, o principi) e proposizioni derivate, onde le regole di accettazione del primo tipo di enunciati dovranno risultare assai diverse da quelle degli enunciati del secondo tipo.
2) Sulla base di questo risultato si è inoltre riconosciuto che una qualsiasi teoria non si fonda soltanto sulle proposizioni accolte come primitive, ma anche sul gruppo di regole logiche, che servono a dedurre tutte le proposizioni derivate dalle anzidette proposizioni primitive. Trattasi di regole che non possono venire ammesse "tacitamente" in quanto "evidenti o intuitive", potendo in realtà essere diverse da una teoria all'altra; dovranno invece venire rese esplicite all'atto di costruire la teoria in questione, se si vuole porre veramente in chiaro tutte le ipotesi su cui questa si basa.
3) Si è scoperto che, se la teoria considerata intende risultare connessa al mondo dell'esperienza, essa non si baserà unicamente sopra una determinata logica deduttiva ma anche su procedure altrettanto essenziali aventi lo scopo: o di confermare le proposizioni di contenuto empirico sulla base di certi dati osservativi (conferme che nella maggioranza dei casi saranno soltanto in grado di fornire alle proposizioni in questione una probabilità più o meno elevata), oppure di tentare la confutazione di congetture precedentemente accolte dalla scienza onde sostituirle con altre, nuove e più ardite.
4) Si è scoperto che nelle stesse teorie "empiriche" esistono di fatto alcuni termini non collegati direttamente ai dati di osservazione, e perciò ben distinti dai termini per cui si danno precise "regole di corrispondenza" che li connettono a tali dati. Ne segue che, se una proposizione contiene qualche termine del primo tipo (cioè qualche "termine teorico"), essa non potrà venire posta al vaglio dell'esperienza con i medesimi metodi diretti usati per verificare o confutare una proposizione contenente esclusivamente - oltre ai connettivi logici - dei termini del secondo tipo (o "termini osservativi"); in altre parole: la sua verificazione o falsificazione non potrà essere che è indiretta, cioè mediata dai nessi fra i termini teorici, ivi contenuti e quelli osservativi. Allora sorgono però spontaneamente due domande: non è possibile, con opportuni accorgimenti, fare a meno dei termini teorici, per usare soltanto termini osservativi? E se i termini teorici risultano davvero ineliminabili, quale funzione specifica occorre loro riconoscere?
5) Si è infine scoperto che i famosi "modelli", che in passato hanno occupato una posizione di notevolissimo rilievo entro le teorie empiriche, ed a cui ancora oggi si fa frequente ricorso, non vi posseggono dei compiti esattamente precisabili(1); talvolta infatti sembrano unicamente costruiti al fine di rendere "intuitiva" la teoria ove compaiono, altre volte di "ridurla" al rango di sotto-teoria di una teoria già nota, altre volte ancora sembrano avere una funzione meramente euristica. Di qui la necessità di discutere la natura di tali modelli, di formulare con esattezza ciò che possiamo attenderci da essi, di precisare le cautele che dobbiamo adottare nell’usarli affinché non ci traggano in inganno.
Non occorrono molte parole per porre in luce che le analisi metodologiche, in base a cui si ottengono i risultati sopraelencati, non possono assolutamente venire svolte nell'ambito di una sola teoria scientifica ma richiedono l'esame di varie teorie (ad esempio per stabilire che la logica usata dall’una è diversa da quella usata dall'altra, o per confrontare i modi più o meno articolati con cui i loro termini teorici si connettono ai rispettivi termini osservativi ecc.) È il tipo stesso di tali analisi metodologiche ad indicarci il loro carattere interdisciplinare, e non già nel senso che una scienza possa utilizzare i ritrovati dell'altra, ma nel senso che possa - anzi debba - interessarsi del modo come sono costruite le altre per enucleare ciò che l’assimila è ciò che la differenzia da esse.
Ma il carattere più nuovo delle indagini in esame è forse un altro: e - per adoperare un termine oggi di largo uso - il loro carattere "metateorico". Ciò significa che non si svolgono all'interno di una teoria per approfondire la nostra conoscenza degli oggetti di cui essa si occupa, ma hanno per oggetto la teoria stessa. Ne studiano cioè i principi, le nozioni fondamentali, i metodi dimostrativi, sia per determinare esattamente la struttura interna, sia per poter determinare, di conseguenza, i rapporti esistenti fra tale struttura è quella di altre teorie.
Risulta chiaro da tutto ciò che uno studio siffatto provoca, in chi lo persegue, un interesse diverso da quello che anima il ricercatore tradizionale. È bensì vero che tale studio viene originariamente provocato dal desiderio di migliorare l'efficienza della teoria in cui si opera, e perciò di metterla in grado di superare agevolmente le più subdole e recondite difficoltà da essa incontrate, ma nel corso delle indagini questo desiderio non può fare a meno di ampliarsi. Una volta che uno studioso ha compreso che la teoria può costituire essa stessa un serio progetto di ricerca, cresce in lui spontaneamente l'esigenza di raggiungere una piena consapevolezza sul delicatissimo argomento. Il suo modo primitivo di procedere, accettando le premesse e i metodi della teoria così come gli erano stati trasmessi dalle generazioni precedenti, gli appare ormai grossolanamente dogmatico. Ogni volta che si trova di fronte a un ostacolo veramente grave, non lo affronterà più da semplice tecnico (cioè con gli strumenti specialistici di cui già dispone) ma da un autentico innovatore, capace di "rivoluzionare" l'impostazione stessa della ricerca. E, come ogni serio rivoluzionario, non si accontenterà di procedere a caso, ma sulla base della più esatta conoscenza possibile di ciò che intende modificare radicalmente, nonché sulla base di un attento studio delle "rivoluzioni" avvenute in altri settori della scienza. La chiusura nella propria specialità diventa così, per lui, un peso del quale deve assolutamente, e quanto prima, liberarsi.
IV. Dalle analisi metodologiche al problema filosofico circa il valore conoscitivo della scienza.
Se è vero, come abbiamo cercato di provare nel paragrafo precedente, che le analisi metodologiche hanno segnato un primo importantissimo passo verso l'abbandono del puro specialismo, vero è però che la critica più radicale di esso è sorta in campo prettamente filosofico, e precisamente in connessione al problema del valore conoscitivo da attribuirsi al “sapere scientifico ".
Per comprendere il particolare significato che assume oggi questo problema, proprio in seguito ai risultati della più moderna metodologia, sarà opportuno premettere un brevissimo raffronto critico tra la posizione odierna della filosofia nei confronti della scienza e la posizione che le venne attribuita nei secoli scorsi.
Nel Sei e nel Settecento le ricerche filosofiche si proposero, come sappiamo, il compito - allora essenziale - di fornire alla scienza (nel suo assetto moderno) un fondamento metafisico, capace di garantire il valore assoluto del nuovo tipo di conoscenze che essa si sforzava di raggiungere. Tale garanzia doveva rivelarsi così solida, da resistere agli attacchi mossi contro la scienza dalle numerose correnti scettiche (in particolare, nel 600, dai libertini). Nell'Ottocento il positivismo capovolse completamente il rapporto tra filosofia e scienza, dando per scontato che quest'ultima fosse ormai una conquista sicura della nostra civiltà, ossia che non richiedesse alcuna garanzia filosofica esterna. Si pensò, di conseguenza, che il filosofo non dovesse più proporsi di trovare un fondamento assoluto alle "verità" scoperte dalla matematica, dalla fisica, dalla biologia, ma piuttosto dovesse sforzarsi di ampliare il campo del sapere scientifico, fino a includere la psicologia, la sociologia, la pedagogia e le discipline ad esse affini, enucleando poi dal patrimonio complessivo delle scienze alcuni principi generalissimi applicabili all'intero universo. Il fatto nuovo che ha radicalmente mutato la situazione odierna rispetto a quelle passate è il seguente: le conoscenze scientifiche - come venne posto in chiaro dalle indagini metodologiche cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente- hanno perso il carattere di assolutezza ad esse per l'innanzi attribuito, così che non ha più senso né cercare una giustificazione metafisica di tale presunta assolutezza, né dare per scontata l'assolutezza delle "verità scientifiche" già note e cercare, partendo da esse, di estendere il campo del nostro "sapere assoluto". Il problema è ora un altro: è quello di determinare il posto spettante alla scienza nell'ambito generale delle conoscenze umane.
Esso esige, come è ovvio, che venga preliminarmente risolto il seguente quesito: se esista qualche altro tipo di conoscenza, diversa da quella scientifica, che possa legittimamente aspirare al titolo di "assoluta" (ma va subito osservato che non potrà trattarsi, comunque, della conoscenza comune, ove già i filosofi greci riscontrarono i caratteri della mera relatività). Chiaro è infatti che, se esistesse un tipo siffatto di conoscenza, il cosiddetto sapere scientifico verrebbe a collocarsi di fronte ad essa ad un livello decisamente inferiore, cosicché l’anzidetto problema di determinare il posto spettante a questo sapere entro il quadro generale delle nostre conoscenze potrebbe dirsi automaticamente risolto. In tale ipotesi, il filosofo non avrebbe altro compito fuorché quello di esplicitare l'inferiorità della scienza, dedicandosi poi allo studio della "vera" conoscenza (quella superiore, assoluta, non scientifica).
Riteniamo che tutta la trattazione da noi compiuta della storia del pensiero filosofico sia valsa a confutare questa tesi. In particolare possiamo rinviare il lettore a quanto abbiamo detto nei capitoli II e VII del sesto volume, dedicati appunto all'esposizione e alla critica dei più famosi indirizzi che ancora pretendono, nel nostro secolo, contrapporre alla conoscenza scientifica un tipo di conoscenza "intuitiva" e "immediata", capace di raggiungere delle verità assolute.
Va però aggiunto che non pochi studiosi, pur senza aderire in forma esplicita agli indirizzi in questione, mutuano tacitamente da essi la convinzione che la conoscenza scientifica, in quanto relativa, non possa costituire l'autentico oggetto della gnoseologia, e quindi tendono a reimpostare il “problema filosofico della conoscenza "come lo si impostava prima della rivoluzione galileiana. È un equivoco che non merita di venire discusso, risultando basato su una semplice mancanza di coraggio teoretico: il coraggio di ammettere che o si postula una conoscenza intuitiva "superiore" a quella scientifica o si incentra decisamente il problema della conoscenza sull'esame del tipo oggi più accreditato di conoscenza, cioè appunto sull'esame della conoscenza scientifica.
Fatta in via preliminare questa precisazione, possiamo finalmente affrontare il vero nodo del problema: è lecito o non è lecito attribuire all'uomo la capacità di raggiungere delle conoscenze obiettive, quando si esclude che possegga una facoltà intuitiva di carattere essenzialmente superiore alla razionalità scientifica, e si ammette nel contempo che la scienza non è in grado di portarci a delle verità assolute? Abbiamo cercato di spiegare i motivi per cui Lenin, ricollegandosi a Engels, ritenne di dover compiere una netta distinzione fra la “relatività delle conoscenze scientifiche” e il "relativismo" o "agnosticismo" filosofico, ossia fra la ammissione - di natura metodologica - che le conoscenze scientifiche non posseggono un carattere assoluto ("nel senso della relatività storica dell'approssimazione di [tali] conoscenze") e la tesi - di natura filosofica - che l'uomo non sarebbe in grado di raggiungere, neanche in via approssimata, alcuna "verità obiettiva". Il motivo fondamentale adotto da Lenin a sostegno di questa distinzione era, come sappiamo, la constatazione che le nostre osservazioni (in particolare quelle scientifiche) ci fanno passare, malgrado la relatività dei loro risultati, da "una conoscenza incompleta e imprecisa" ad una "più completa e più precisa" (il che implica ovviamente che le conoscenze scientifiche possano venire confrontate fra loro -come avviene di fatto nella realtà della dialettica storica- senza che si debba a tale scopo rapportarle ad una conoscenza assolutamente completa e precisa); si imperniava, in altri termini, sull'esame della “scienza umana che progredisce”.
Come il lettore ricorderà, fu proprio un esame di questo tipo, applicato - nel caso specifico - alla matematica, che ci condusse ad abbandonare l'interpretazione puramente convenzionalistica di questa scienza e a cercare di risolvere il problema del suo valore conoscitivo spostando la nostra indagine dalle singole teorie, considerate come edifici fissi e isolati al succedersi di una teoria all'altra, con tutti i nessi che questa successione rivela fra le svariate costruzioni matematiche e quelle non puramente tali.
Trattasi, come pure si ricorderà, di un interesse che oggi sta conducendo parecchi metodologi a occuparsi, non tanto dei fondamenti delle varie discipline scientifiche, quanto della loro crescita spesso travagliata e discontinua.
Un'analoga impostazione della ricerca ci sembra ora necessaria per affrontare in tutta la sua generalità il dibattito - essenzialmente filosofico - non più intorno alla crescita di questa o quella disciplina, ma intorno al valore conoscitivo della scienza intesa nella sua globalità.
Sorge però a questo punto un problema di principio: ha senso applicare nel nostro caso la categoria della totalità, cioè parlare di "scienza" come un tutto, pretendendo farne oggetto di un'indagine seria e rigorosa? Che il linguaggio comune sia solito usare questo termine, è cosa ben nota; è tuttavia altrettanto certo che il metodologo non sottopone mai alle sue attenti analisi la scienza in generale, bensì soltanto le singole teorie scientifiche sia pure per operare un raffronto critico dei loro metodi e delle loro strutture (avvalendosi all'uopo - come sappiamo - dei più raffinati strumenti della logica deduttiva e induttiva). È dunque chiaro che l'esame della scienza nella sua globalità comporta un autentica svolta, oltrepassando l’ambito della pura metodologia.
Vi sono comunque parecchi motivi che ci inducono a compiere questo radicale cambiamento di prospettiva. Ci limiteremo per ora a segnalarne due: in primo luogo vi è un motivo di natura storica, in quanto è incontestabile che l’era moderna risulta proprio caratterizzata dalla nascita e dallo sviluppo della scienza (non di questa o quella teoria scientifica, ma della scienza globalmente intesa). In secondo luogo vi è la constatazione che il più recente sviluppo delle indagini scientifiche ha posto in rilievo la sostanziale unità dell'oggetto studiato da talune scienze (ad esempio da certi settori della fisica, della chimica, della biologia) che pure erano sorte come discipline del tutto diverse; onde la conoscenza via via "più completa e più precisa" (nel senso sopra accennato) di tale oggetto non può venire ottenuta se non utilizzando ordinatamente le informazioni che raccogliamo su di esso per mezzo delle più varie teorie. Non è facile prevedere se questa tendenza prenderà o no il sopravvento sullo spirito specialistico, affermatosi tanto rapidamente nel secolo scorso; certo è tuttavia che essa richiama la nostra attenzione sul pericolo che ci si lasci sfuggire qualcosa di essenziale, se non si tiene conto del convergere, oggi in atto, di molteplici ricerche scientifiche verso fini comuni, non conseguibili sulla base di sole indagini settoriali.
L'obiezione più grave contro la possibilità di un esame dell'attività scientifica, non ridotto all'analisi e al raffronto delle singole teorie da essa elaborate, consiste nel fatto che la scienza nella sua globalità si presenta come qualcosa di fluido, cui risulta perciò stesso inapplicabile il metodo assiomatico. Rilevammo più volte che questo metodo ci permette effettivamente di cogliere le strutture generali di una teoria - una volta che se ne siano esplicitati i principi - e pertanto di contemplarla come un tutto unico. Ma, quando esso non è applicabile, a quale altro metodo fare ricorso?
L' unico suggerimento che la storia del pensiero ci sappia offrire di fronte a un caso tanto complesso, è quello di fare ricorso a una considerazione di tipo dialettico, cioè a una considerazione della totalità come unità dinamica, non statica; in altri termini: come unità che scaturisce da un intreccio - in perenne movimento - delle sue parti, tale però che il modificarsi dei legami tra esse non ne annulla la reciproca solidarietà, ma anzi la arricchisce di ulteriori articolazioni. (Si pensi per esempio al sommovimento che si produsse all'inizio del Novecento in seguito alla scoperta - compiuta dalla fisica quantistica - che le categorie applicabili al mondo che ci circonda non sono affatto trasferibili al micromondo; è incontestabile che ciò ebbe delle conseguenze assai profonde sul modo tradizionale di concepire i rapporti tra la fisica e le altre scienze, ma il risultato finale fu che questi nessi vennero approfonditi e potenziati, non affievoliti).
È ovvio che, se si postula che i soli metodi adoperabili per esaminare il significato e il valore delle scienze sono quelli oggi in uso nelle indagini metodologiche, non si potrà assolutamente fare a meno di respingere a priori la nozione stessa di "scienza intesa nella sua globalità". Allora però si dovrà coerentemente rinunciare a prendere atto delle effettive modalità storiche con cui la ricerca scientifica si sforza in concreto di comprendere la complessa regolarità della natura mediante concetti "flessibili, mobili, relativi, interdipendenti, unitari pur nelle loro intrinseche contraddizioni" (Omelyanovskij). Se una rinuncia siffatta viene giudicata troppo grave - e questo è appunto il nostro parere - occorrerà, invece, avere il coraggio di integrare le indagini metodologiche (validissime nel proprio campo) nel senso poco sopra indicato, e cioè con una considerazione della scienza nella sua unità dinamica e dialettica.
Orbene, se accettiamo di esaminare il problema in questa nuova prospettiva (non più soltanto metodologica ma storica), diventerà agevole rendersi in primo luogo conto che la relatività delle singole teorie scientifiche non comporta affatto la relatività del tutto da essere costituito; e in secondo luogo che questo tutto si sviluppa continuamente malgrado le crisi subite dalle sue parti (anzi, proprio per effetto di tali crisi). Una riflessione attenta su tale sviluppo ci mostrerà infine che esso è assai più simile allo sviluppo di un organismo vivente e non al caotico accatastarsi di “pezzi” casualmente gettati l'uno accanto all'altro.
È chiaro che il filosofo tradizionale, abituato a impostare il problema della conoscenza nei termini in cui lo formulavano i metafisici dei secoli scorsi, potrà non attribuire alcune importanza alle considerazioni ora accennate; ma chi sappia liberarsi da tali formule non avrà difficoltà ad ammettere che il tipo di sviluppo - articolatissimo e nel contempo ordinato - della scienza rappresenta in realtà qualcosa di molto nuovo. Egli non potrà rifiutarsi di ammettere che la scienza, ed essa sola, è in grado di accumulare un patrimonio di conoscenze strettamente connesse fra loro anche quando le successive costituiscono una parziale negazione delle precedenti: patrimonio che va crescendo di anno in anno e le cui modalità di accrescimento non dipendono esclusivamente dalle attività del soggetto.
Stando così le cose, che motivi abbiamo, se non delle riserve di natura metafisica, per rifiutarci di riconoscere francamente che le ininterrotte acquisizioni di tale patrimonio costituiscono delle approssimazioni via via più soddisfacenti di una realtà irriducibile al puro pensiero?
V. La non - neutralità della scienza.
Già si è cercato di esaminare brevemente, alla fine del paragrafo secondo, come sorga - nell'animo dello scienziato specialista - la tendenza a ritenere "neutrale" la propria ricerca. Si è visto in particolare che la "neutralità" etico-politica della scienza ", di cui tanto si parla, non è altro, in ultima istanza, che una conseguenza della sua presunta "neutralità teoretica"; è un atteggiamento pratico che trova spiegazione in una aprioristica chiusura degli interessi conoscitivi del ricercatore. Lasciare ad altri il compito, e la responsabilità, di utilizzare come ritiene più opportuno le applicazioni pratiche dei risultati ottenuti, diventa per lo scienziato una specie di difesa dell'autonomia del proprio lavoro.
Stando così le cose, è chiaro che dovremo dirigere la nostra analisi prevalentemente sul problema della “neutralità teoretica ".
A tal fine ricorderemo ancora una volta che risale proprio al travagliato periodo storico attraversato dalla Francia nei primi decenni dell'Ottocento la pericolosa svolta che condusse tale Paese ad abbandonare l'interpretazione illuministica della scienza (come fattore essenziale del progresso dell'umanità) per sostituirla con un'interpretazione "neutralistica” di essa (come semplice "produttrice" di scoperte, di per sé indifferente alle lotte per lo sviluppo della civiltà).
Abbiamo poi sottolineato nel volume VI come questa nuova mentalità abbia fatto numerosi proseliti tra gli scienziati della seconda metà dell'Ottocento, in quasi tutti i Paesi europei. Il fenomeno assunse un carattere particolarmente rilevante in Germania, dove le autorità governative si preoccupavano, per un lato, di dimostrare un grande "rispetto" per la scienza (anche versando altissimi stipendi ai suoi più valenti cultori), per un altro lato però, di fare in modo che le università (straordinariamente potenziate sotto l'aspetto scientifico con la creazioni di grandi laboratori, ricche biblioteche ecc.) rimanessero quanto più possibile estranee ai complessivi movimenti politico-sociali che si battevano per un rinnovamento radicale delle istituzioni. La stessa distinzione, in quegli anni terrorizzata da alcuni filosofi, tra scienze della natura e scienze dello spirito parve fornire i nuovi argomenti a favore della tesi anzidetta circa la neutralità delle scienze della natura (restando aperto il problema se anche le scienze dello spirito potessero, o no, partecipare di tale "situazione di privilegio").
È stata la rivoluzione bolscevica, guidata da Lenin, a rifiutare apertamente la concezione neutralistica giungendo a contrapporre una “scienza proletaria” alla "scienza borghese". Come è noto, questa contrapposizione ha suscitato un vero e proprio scandalo fra i "benpensanti", i quali non si avvidero (e fu una colpevole cecità) che essa era unicamente una drastica riformulazione della vecchia tesi illuministica del carattere "non neutrale" di tutta la scienza.
Nella prospettiva della contrapposizione tra scienza proletaria e scienza borghese, anche la polemica di Lenin contro i "machisti" finì per assumere un significato particolare: il significato di vibrante denuncia del carattere tutt'altro che neutrale della fisica fenomenistica, presentata dai suoi sostenitori come "scienza pura" cioè priva di qualsiasi presupposto filosofico, ma in realtà indissolubilmente legata all'idealismo "reazionario" (anche al di là delle intenzioni di Mach e dei suoi seguaci). E analogo significato assunsero pure le critiche sollevate qualche decennio più tardi dai fisici e dai filosofi sovietici contro la teoria della relatività e contro la meccanica quantistica, cui parecchi pensatori occidentali facevano riferimento (in quell'epoca) per dare una veste di "superiore scientificità" alle proprie concezioni antimaterialistiche. Volendo ora affrontare il problema da una prospettiva prettamente teoretica, cercheremo di riassumere in tre punti l'argomentazione che vale, secondo noi, a respingere decisamente la tesi della neutralità della scienza; essi sono: 1)insostenibilità della distinzione tra scienza della natura e scienza dello spirito;2) impossibilità di eliminare dalla scienza le sue implicanze filosofiche; 3) riconoscimento dell'impegno in largo senso politico di ogni serio tentativo di accrescere la nostra conoscenza del mondo (nella sua totalità).
Il primo di questi tre punti trova oggi un consenso pressoché unanime tra gli studiosi più avanzati. Ciò non va inteso, come è ovvio, nel senso che la medesima metodologia possa venire indifferentemente applicata a tutte le scienze (della natura e dello spirito). Il fatto è che oggi più nessuno può seriamente affermare - come si sosteneva nell'ottocento - che esista un unico metodo da privilegiare su tutti gli altri quale “veramente scientifico”. E nemmeno si può sostenere che questa o quella scienza possegga una metodologia fissata una volta per sempre; vero è invece che i suoi metodi si modificano e si perfezionano col tempo, subendo talvolta delle autentiche rivoluzioni dovute all'emergere sia di nuove istanze logiche sia di nuovi istanze sperimentali. Tanto meno poi si potrà dire che scienze diverse posseggono i medesimi metodi; la realtà è invece che le innovazioni metodologiche dell'una possono esercitare un'influenza assai profonda sulla metodologia dell'altra, in un processo di “dare e avere” del quale abbiamo riscontrato numerosi esempi nel corso della nostra trattazione.
Stando così le cose, è ovvio che non avrà senso distinguere le scienze in due tipi diversi, caratterizzati l'uno da un metodo e l'altro da un altro, privi di qualsiasi nesso reciproco. Difatti, tanto per citare un esempio, è oggi notissimo che la psicologia e la sociologia hanno ricevuto parecchie sollecitazioni dai moderni sviluppi metodologici della matematica. Perde quindi ogni fondamento la tesi secondo cui le scienze della natura sarebbero "neutrali" in conseguenza del metodo da esse applicato, mentre le cosiddette "scienze dello spirito", per seguire un metodo del tutto diverso, sarebbero - esse sole - "veramente impegnate". Quanto al secondo punto, cioè all'impossibilità di eliminare dalla scienza le sue implicanze filosofiche, esso costituisce uno dei temi centrali di tutta la nostra trattazione; riteniamo quindi che chi ci abbia seguito nel corso della presente storia, non possa più nutrire dubbi in proposito. Se vi sono stati alcuni periodi in cui il pensiero filosofico e il pensiero scientifico si sono avviati lungo vie apparentemente indipendenti, ci sembra però incontestabile che una visione globale del loro sviluppo dimostra ad abundantiam l'essenzialità dei loro pur notevoli rapporti. Il fatto è che, perfino quando le scienze proclamarono di voler fare a meno di ogni filosofia, in realtà questo loro distacco era il frutto di una ben determinata filosofia. Le considerazioni di Engels sull'argomento, in particolare la sua accusa agli "scienziati positivisti" di presupporre inconsapevolmente una certa filosofia (e per di più "cattiva"), hanno chiarito definitivamente la questione.
È comunque molto importante che le implicanze filosofiche delle dottrine scientifiche vengano scrupolosamente esplicitate, perché la chiara enunciazione di esse ci offre l'unica via, da un lato, per analizzare con rigore il significato generale, dall'altro lato, per porre in luce che certe pretese conseguenze filosofiche dei loro principi non derivano in realtà da questi principi ma da una interpretazione gratuita di essi (com'è per esempio accaduto a proposito dei principi di indeterminazione e di complementarietà della meccanica quantistica, secondo quanto si è cercato di spiegare nel capitolo). Il timore di affrontare l'analisi delle teorie scientifiche anche da questo punto di vista non è dettato -come taluno afferma - da un'aristocratico amore di purezza, ma dal rifiuto di considerare quel grande fenomeno storico che è la scienza (in particolare la scienza moderna) in tutta la sua complessità e in tutti i suoi risvolti.
Resta infine da prendere in esame il terzo dei punti sopraelencati, il quale si rileva subito - come è ovvio - il più complesso. Esso si ricollega manifestatamente a quanto esposto nel paragrafo precedente circa la portata conoscitiva del sapere scientifico.
Una volta ammesso che la scienza contribuisca effettivamente ad accrescere la nostra conoscenza della realtà (conoscenza, e bene ribadirlo, sempre relativa a una data situazione storica e quindi mai assoluta), il primo quesito da affrontare sarà il seguente: siamo davvero autorizzati a sostenere che tale accrescimento non esercita alcuna influenza sulla nostra attività pratica? La risposta, come è ovvio, non può essere che negativa, poiché la frattura fra la teoria e la prassi è continuamente smentita dall'interscambio tra scienza e tecnica che sta alla base della stessa civiltà moderna. Ed è, di conseguenza, smentita la tesi che il progresso scientifico non eserciti alcune influenza sullo sviluppo sociale, essendo ben noto, specialmente ai nostri giorni, il peso spettante - entro questo sviluppo - ai progressi della tecnica.
Ma vi è di più: l'accrescimento della nostra conoscenza della realtà è sempre valso, e vale ancora oggi, ad abbattere vecchie superstizioni e vecchi miti che disturbano profondamente l'esercizio della ragione, non solo nello studio della natura ma anche nella trattazione dei problemi sociali (si ricordi che Marx rivendicò costantemente il carattere scientifico del proprio socialismo, basato su un'esatta conoscenza delle effettive strutture economiche del capitalismo, non su semplici, e sia pur generose, aspirazioni a una maggiore giustizia sociale).
A questo punto, però, ci troviamo di fronte a un secondo quesito. Ammettiamo pure - obietterà infatti qualche sostenitore della neutralità della scienza - che il progresso scientifico, strettamente collegato a quello tecnico, abbia costituito uno dei fattori determinanti della nascita della civiltà moderna, e di conseguenza abbia contribuito in modo decisivo a far sorgere i gravi problemi che la caratterizzano; ciò non impedisce tuttavia che oggi la scienza resti indifferente di fronte alle possibili soluzioni di tali problemi, proposte dai diversi movimenti politici che si contendono la direzione della società.
Ancora una volta la tesi della "neutralità etico-politica" si rivela strettamente legata a quella della "neutralità teoretica" che si basa in ultima istanza sulla chiusura specialistica della ricerca scientifica. È chiaro infatti che lo scienziato, il quale ritenga di potersi davvero rinserrare nel campo circoscritto delle proprie indagini, può effettivamente rimanere indifferente di fronte agli sviluppi della società, dichiarandosi non interessato a che questa risolva in un senso o nell'altro i propri problemi di fondo e con ciò orienti in un senso o nell'altro il futuro della cultura. Ma il suo atteggiamento non potrà fare a meno di mutare, se terrà presente che tutte le conoscenze umane risultano strettamente (seppur non rigidamente) collegate fra loro, dando luogo a una effettiva interdipendenza tra i progressi realizzati in un campo e quelli realizzati negli altri campi. Egli comprenderà allora agevolmente che lo sviluppo della cultura è un processo globale, compatto, unitario, ove non esistono "isole" più o meno felici costituite dalle singole ricerca settoriali, sottratte a ogni influenza esterna. È chiaro per esempio che un certo tipo di società, col semplice fatto di esaltare alcuni risultati tecnici in luogo di altri, costringe -sia pure indirettamente- lo specialista a occuparsi prevalentemente di certi problemi anziché di altri (forse da un punto di vista intrinseco, più significativi dei primi). Solo la distorsione specialistica può far credere al ricercatore che la propria indagine sia "libera e indipendente"; ma una visione più realistica di essa gli dimostra invece che fa parte integrante di un tutto organico, sicché non può prescindere dalle sorti di questo tutto.
Da questo punto di vista, la contrapposizione leniniana della scienza "proletaria" alla scienza "borghese" assume il seguente significato: la scienza borghese “nello studio attuale dello sviluppo della borghesia, ben diverso da quello settecentesco” si illude di essere neutrale e quindi non offre alcuna resistenza di principio a chi è in grado di strumentalizzarla; la scienza proletaria, essendo chiaramente consapevole dei nessi dialettici che legano ogni singola disciplina alla globalità del sapere, si rende invece conto che ogni risultato via via raggiunto in questo o quel settore possiede, pur nella sua relatività, un significato e un peso per tutti gli uomini. Anche la prima può senza dubbio conseguire strepitosi successi; questi non le impediscono però di rimanere culturalmente sterile (ammirata, forse, da tutti ma rinchiusa in uno splendido isolamento). La seconda invece, proprio perché inserita nelle lotte generali della cultura e della società, può anche "sporcarsi le mani" ma non fare a meno di assumere un valore universale. Quella può "serenamente" tollerare che sopravvivano accanto ad essa le vecchie concezioni irrazionalistiche del mondo (che costituiscono ancora oggi la più comoda giustificazione ideologica delle ingiustizie sociali); questa si compromette a viso aperto nei più accesi dibattiti filosofici per rinnovare la nostra concezione del mondo, e con ciò diventa - come lo fu nel settecento la scienza illuministica - uno dei fattori fondamentali del progresso culturale e civile dell'umanità.
VI. Per una moderna concezione del mondo.
Che l'attività teoretica non si esaurisca per intero nella conoscenza comune e in quella scientifica, risulta ormai chiaro da quanto è stato detto nel paragrafo IV. In tale sede si è visto infatti che la discussione (eminentemente teoretica) sul valore conoscitivo della scienza - discussione la quale esorbita ovviamente dal campo della conoscenza comune - non rientra neanche in quello della metodologia scientifica (e di conseguenza può tanto meno rientrare nel campo delle scienze particolari). Il fatto è che l'analisi metodologica verte sulle strutture delle singole teorie, mentre i dibattiti intorno al valore conoscitivo della scienza, pur partendo dai risultati di tale indagine, hanno come oggetto la stessa scienza considerata nella sua unità dinamica e dialettica.
Ai dibattiti di questo tipo la tradizione culturale cui apparteniamo suol attribuire il titolo di "indagini filosofiche". Nel presente paragrafo ci proponiamo di mostrare come un tal genere di indagini ci riporti ad affrontare, anche oggi, i problemi accennati nel paragrafo I, cioè i problemi concernenti la così detta "concezione del mondo".
Cominciamo a chiederci che cosa vi fosse di più caratteristico nei dibattiti ("filosofici" e non puramente "metodologici", né tantomeno puramente "scientifici") sul valore conoscitivo della scienza. Come abbiamo sottolineato più volte apertis verbis, il punto più caratteristico di essi era il tipo stesso della loro impostazione, rivolta programmaticamente alla scienza nella sua globalità.
Già ci siamo chiesti nel paragrafo IV se un'impostazione siffatta fosse o non fosse lecita; cioè se fosse lecito prendere come oggetto di un'indagine seria, non questo o quel gruppo di teorie, ma la scienza intesa come un tutto. E abbiamo risposto che lo era, perché le stesse considerazioni sul contenuto e sui metodi delle singole discipline ci spingevano ad oltrepassare i limiti di ciascuna di esse (non solo con ricerche interdisciplinari).
Orbene dobbiamo constatare, in modo del tutto analogo, che le conoscenze acquisite dalle scienze particolari, relativamente a settori circoscritti dell'esperienza, esigono una integrazione capace di fornirci una concezione più generale (ossia una "concezione del mondo"). Essa non sarà, ovviamente, l'oggetto di una scienza determinata; ma dovrà riuscire direttamente collegata - e qui è la differenza delle visioni mitiche - ai risultati delle scienze determinate. Nel paragrafo I abbiamo cercato di provare l'importanza che questa esigenza ebbe nelle epoche passate. Ora si tratta di vedere se la conservi ancora, sia pure in forma rinnovata, nella nostra epoca, o se l'abbiamo persa in modo definitivo, come viene da varie parti sostenuto.
La nostra tesi è che l'esigenza anzidetta conservi tutt'oggi la sua importanza centrale, come ci sembra confermato dalla incontestabile sopravvivenza - in larghi strati di persone, tra cui pure molti scienziati - di concezioni del mondo attinte dalle religioni tradizionali o dai vecchi sistemi filosofici. È vero che esse sopravvivono in forma vaga e nebulosa; ma ciò non toglie nulla al loro effettivo vigore. Lo si voglia o no ammettere, è certo che il rifiuto aprioristico di dibattere con strumenti razionali il problema di una concezione del mondo non elimina l'esigenza di risolverlo; tale rifiuto favorisce soltanto il mantenimento di concezioni dogmatiche, volutamente lasciate nella imprecisione in quanto si sa che non resisterebbero a un serio raffronto critico con i risultati (relativi, ma pur sempre forniti di una certa validità) delle indagini particolari.
Orbene, ciò che noi affermiamo è che la ragione umana non può abdicare su questi argomenti ai suoi diritti e doveri; non può accontentarsi di sconfiggere l'irrazionalismo su temi particolari lasciandogli poi campo libero per ciò che riguarda i problemi più generali. Essa non è autorizzata - proprio su un genere così importante di problemi - a battere in ritirata di fronte ai sentimenti e alla fantasia; deve accettare programmaticamente di discutere la questione con tutti gli strumenti di cui dispone. Deve tenere presente che la rinuncia di principio ha una qualsiasi immagine unitaria del mondo - motivata dall'impossibilità di costruirla per via strettamente scientifica - avrebbe l'unica effetto di rinchiuderci nelle secche dello specialismo, impedendoci di assumere una piena responsabilità culturale.
Qualcuno potrà forse obiettarci, a questo punto, che il programma testé proposto coincide sostanzialmente con quello del positivismo ottocentesco (per esempio dell'evoluzionismo spenceriano). La risposta è facile, e possiamo articolarla in tre punti: 1) le leggi scientifiche da cui prendeva le mosse il positivismo ottocentesco erano da esso ritenute "assolutamente valide"; mentre noi sappiamo che tutte le leggi scientifiche sono essenzialmente relative e notevoli come ogni risultato di una qualsiasi conoscenza umana, per quanto ottenuta in base ai più rigorosi metodi di indagine sul momento posseduti; 2) il positivismo ottocentesco si credeva in diritto di presentare come scientifica la propria concezione del mondo, mentre noi sappiamo che l'elaborazione di una concezione siffatta esorbita dai compiti di una qualunque scienza specifica; 3) il positivismo rifiutava di fare qualsiasi appello alle categorie elaborate dalla tradizione filosofica (anche da quella dichiaratamente razionalistica), mentre noi riteniamo di doverci valere, per costruire una concezione unitaria del mondo, di tutti i suggerimenti trasmessici dal pensiero filosofico-scientifico del passato, in quanto seriamente impegnato in tale problema (in altri termini: non ci precludiamo, a priori, la possibilità di riprendere, in forma moderna, le concezioni dei massimi filosofi delle generazioni che ci hanno preceduto, riservandosi unicamente di adeguarle ai più validi ritrovati della scienza della nostra epoca, proprio come essi cercavano di fare con la scienza del loro tempo). Ciò premesso, non è il caso di osservare che - data l'evidente complessità dell'argomento - nessuno potrebbe seriamente pretendere di riuscire ad abbozzare in poche pagine una nuova concezione del mondo capace di soddisfare il requisito sopra accennato (cioè davvero adeguata ai più moderni risultato della scienza e della metodologia scientifica). Ma è già molto importante, a nostro parere, aver riconosciuto in modo esplicito che l'elaborazione di una concezione siffatta rientra direttamente fra i problemi essenziali del pensiero filosofico odierno. Da tale riconoscimento segue, infatti, che una filosofia, la quale non osi cimentarsi su questo specifico problema, tradisce una delle esigenze di fondo della nostra cultura.
Pur senza avere la pretesa di proporre una soluzione del problema in esame, ci sembra comunque possibile elencare alcune condizioni cui dovrà soddisfare una concezione del mondo, per potersi presentare come veramente moderna.
La prima condizione è di rinunciare a ogni presunzione di assolutezza, allo stesso modo come vi hanno rinunciato ormai da tempo le teorizzazioni settoriali elaborate dalle singole scienze. Va riconosciuto però che in questo caso tale rinuncia risulta ancora più ardua di quanto essa risultò per le teorizzazioni scientifiche. Il motivo di ciò va cercato nella difficoltà di separare le due nozioni (tradizionalmente unite) di totalità e di assolutezza. Eppure, se non si vuole creare una frattura insanabile fra concezioni parziali e concezioni generali del mondo, si tratta proprio di strutturare anche quest'ultima in modo da presentarla con piena consapevolezza come essenzialmente relativa, e quindi passibile per principio di profonde modifiche con il mutarsi del patrimonio complessivo delle nostre conoscenze.
Quando si parla di "modifiche" non si vuole, ovviamente, sostenere che queste debbano essere arbitrarie, come non sono né arbitrarie né convenzionali le trasformazioni che abbiamo avuto tante occasioni di riscontrare nello sviluppo delle scienze (sia in passato sia nel periodo a noi più vicino). Si vuole soltanto sottolineare il carattere di non-chiusura che a nostro giudizio è necessario includere in una concezione del mondo, affinché essa possa considerarsi adeguata alla nostra epoca. È una non- chiusura la quale dipende dal rapporto stesso che abbiamo ammesso esistere tra scienza e filosofia. Se è vero infatti che respingiamo decisamente la pretesa del positivismo ottocentesco di assorbire la filosofia nella scienza, vero è però che riconosciamo alla filosofia il preciso dovere di riflettere seriamente sulla "scienze umana che progredisce" (per usare una felice espressione di Lenin, già varie volte citata) al fine di cogliere il nucleo più significativo delle sue sempre nuove scoperte e far tesoro proprio di esso (non lasciandosi ingannare dalle apparenze) nell'analisi dei problemi generali.
È proprio per la difficoltà di attribuire a una concezione globale del mondo il carattere testé chiarito, che parecchi autori si rifiutano di far rientrare nei compiti della ragione quello di elaborare una concezione siffatta, con risultato - di cui già segnalammo l'estrema pericolosità - di lasciare qui uno spazio vuoto, a disposizione della fantasia o della superstizione.
Un secondo punto fermo dev'essere, a nostro parere, costituito dal risultato cui siamo pervenuti alla fine del paragrafo IV. Intendiamo riferirci alla constatazione che lo sviluppo della scienza non è altrimenti concepibile, se non quale serie di successive approssimazioni ad un essere reale, irriducibile alla sfera della pura soggettività. Trattasi, come è ovvio, della tesi che - ricollegandosi alla terminologia di Marx e di Engels - Lenin ha voluto, per ben fondati motivi, indicare col nome inequivocabile di "materialismo".
Se questa forma di materialismo costituisce il punto di approdo di un esame critico veramente moderno del valore conoscitivo della scienza, considerata nella sua globalità dinamica, non ci sembra lecito prescindere timorosamente da tale risultato in una concezione del mondo che si proponga di riuscire seriamente adeguata al livello attuale del sapere. Quando, all'inizio del nostro secolo, l'esame critico della matematica e della fisica parve suggerire una interpretazione puramente convenzionalistica di tutte le conoscenze scientifiche, è comprensibile che parecchi filosofi abbiano ritenuto "doveroso" respingere la tesi materialistica. I pensatori più ricchi di spirito critico, come appunto Lenin, si avvidero però fin da allora che l'interpretazione convenzionalistica non avrebbe potuto venire conservata a lungo, per lo meno nella sua formulazione iniziale, e che pertanto il conseguente rifiuto del materialismo era del tutto infondato.
Come il lettore ricorderà, abbiamo cercato di dimostrare nel capitolo IV del volume ottavo che più recenti sviluppi della matematica pura e applicata, nonché della fisica, hanno posto in rilievo una dimensione realistica di queste scienze, in aperto disaccordo con la loro precedente interpretazione puramente convenzionalistica. È chiaro che questo importante risultato ci costringe, di conseguenza, ad abbandonare le concezioni del mondo di tipo soggettivistico-fenomenistico, che erano state suggerite dal precedente convenzionalismo: concezioni del mondo che peraltro erano apparse, fin dal loro nascere, estremamente confuse (si pensi per esempio alla teoria degli "elementi" di Mach), ed erano anzi valse, in molti casi, a impedire una giusta valutazione di ciò che vi era di fondato nel convenzionalismo (pensiamo in particolare ai meriti acquisiti da questo indirizzo nel criticare il materialismo meccanicistico).
Oggi è fuor di dubbio che il materialismo meccanicistico - in cui parecchi scienziati dell'Ottocento avevano scorto una verità assoluta e definitiva - risulta ormai del tutto insostenibile; l'hanno dimostrato non solo le critiche dei convenzionalisti ma le stesse rivoluzionarie scoperte della fisica atomica (scoperte che meritano di venire accuratamente studiate dal filosofo non meno che dallo scienziato). Un ritorno ad esso sarebbe quindi del tutto impensabile, ma sarebbe altrettanto inammissibile, per le argomentazioni or ora menzionate, un ritorno al soggettivismo fenomenistico. Stando così le cose, sembra difficile negare la serietà di intenti, e la grande modernità di impostazione, di quanti si sono sforzati e si sforzano - sulla via aperte da Engels - di delineare un nuovo indirizzo di idee, abbozzando una forma di materialismo che sappia tenerci parimenti lontana dalle due tesi (meccanicistica e fenomenistica), che furono, sì, fino a poco tempo addietro in aspra lotta fra loro, ma che oggi si sono dimostrate entrambe fallaci.
Un terzo carattere della nuova concezione del mondo, la cui elaborazione rientra - come abbiamo detto - fra i compiti essenziali della filosofia odierna, presenta un aspetto in certo senso più tradizionale. Tale carattere si basa sul franco riconoscimento della non eccezionalità dell'essere umano nel mondo della natura; è un riconoscimento che data da tempi molto remoti, ma che ha trovato amplissima e conferme nei recenti sviluppi della biologia e della psicologia.
Questa continuità uomo-natura ci fornisce preziosi suggerimenti da due punti di vista notevolmente diversi fra loro, ma entrambi essenziali. Per un lato ci fornisce il suggerimento, oggi accolto senza discussione da tutti gli scienziati, di studiare i processi umani alla luce delle leggi formulate dalla più moderna fisiologia, in particolare per ciò che riguarda i rapporti col corpo-mente. Per un altro lato però, ci suggerisce anche di estendere, nel limite del possibile, alla realtà naturale globalmente intesa, taluni principi generalissimi che si rivelano validi per i processi del pensiero. È ciò che fa il materialismo dialettico.
Nel volume quinto, sforzandoci di enucleare dai testi di Engels le più significative prove da lui adottate a sostegno di una “dialettica obiettiva”, abbiamo ritenuto di poterle riassumere nel seguente argomento: se non si vuole ammettere un insuperabile alterità fra essere e pensiero (alterità che ci condurrebbe fatalmente all’agnosticismo), bisogna riconoscere che, risultando tutti i pensieri dialetticamente legati fra loro, anche gli oggetti della natura dovranno essere legati dialetticamente l'uno all'altro. Insomma, non è possibile considerare "essenzialmente nel loro nesso" le immagini soggettive delle cose, senza fare altrettanto per le cose stesse. Il tentativo di estendere a tutta la realtà naturale i principi riconosciuti validi per i processi del pensiero, è qui evidente.
Contro l'argomento engelsiano testé riferito si possono sollevare due obiezioni. La prima consiste nel negare che tutti i pensieri siano dialetticamente legati fra loro; essa è senz'altro valida se si interpreta questo “legame dialettico” nel senso letterale del termine, ma perde pressoché ogni valore quando si indaga tale legame in un senso più aperto (come appunto si ricava dalle pagine migliori di Engels). La seconda, che investe il nucleo centrale di tutto il discorso, consiste nell'accusare di illiceità l'estensione dei principi della dialettica dalle "immagini soggettive delle cose" alle "cose stesse".
Orbene, che questa estensione fuoriesca dai metodi strettamente scientifici, è senz'altro vero. Non è nemmeno vero, però, che ci viene suggerita da una seria tradizione filosofica, come appunto si è visto nei capitoli dedicati a Max, e Engels e a Lenin. E, trattandosi di elaborare una "concezione del mondo", non una semplice teoria scientifica, noi abbiamo già detto che nulla ci impedisce a priori di avvalerci dei suggerimenti trasmessici da tutto il pensiero scientifico-filosofico del passato (non esclusivamente da quello scientifico, del resto mal separabile da quello filosofico).
Il problema si porrà allora in termini alquanto diversi: non come problema interno alla scienza, ma come problema essenzialmente filosofico; di una filosofia però che intende procedere con la ragione, non con la fantasia, e che proprio perciò vuole tenere interrottamente conto del sapere scientifico (pur senza ridursi ad esso). I quesiti da affrontare saranno pertanto due,tra loro complementari: 1) se la dialettica della natura riesca effettivamente a fornirci una concezione coerente del mondo, nella sua globalità; 2) se questa concezione risulti davvero compatibile con i risultati più moderni della scienza.
Non è questa ovviamente, la sede per un dibattito approfondito di essi; se abbiamo ritenuto opportuno esplicitarli, è soprattutto per indicare due direttrici di ricerca; non per inoltrarci in argomentazioni che ci porterebbero troppo lontano (anche se il lettore, che abbia seguito fino a questo punto la nostra trattazione, non nutrirà dubbi circa le conclusioni cui tali direttrici di ricerca debbono, secondo noi, condurre). Basti aggiungere che la discussione del primo quesito comporterebbe un'analisi generale della nozione di “dialettica della natura "che, partendo dall'opera dedicata a questo tema da Engels, si proponesse di enuclearne e colmarne coraggiosamente le numerose lacune (dovute, fra l'altro, all’ incompiutezza stessa dell'opera); tale analisi dovrebbe porre in luce, per un lato, la fecondità della categoria di "rapporto dialettico", particolarmente idonea
- per la sua opposizione ad ogni rigido schematismo - a venire applicata al complesso fluire dei fenomeni naturali (distinti e, nel contempo, interdipendenti gli uni dagli altri); per l'altro dovrebbe sforzarsi di differenziare nettamente quella che può essere una seria concezione dialettica del mondo da una semplice giustapposizione eclettica di idee mal conciliate fra loro. Quanto al secondo dei due quesiti sopra riferiti, sembra sufficiente rinviare il lettore ai numerosi capitoli della nostra trattazione espressamente dedicati al pensiero scientifico; riteniamo infatti che non avrà difficoltà a ricavarne parecchi argomenti sicuramente atti a dimostrare che la concezione del mondo materialistico-dialettica è compatibile, perlomeno nelle sue grandi linee, con le più moderne vedute delle singole scienze.
Osserveremo infine che non esiste oggi, a nostro parere, una seria alternativa al materialismo dialettico, perché nessun'altra filosofia è finora riuscita a conciliare con altrettanta chiarezza il riconoscimento del carattere essenzialmente relativo di tutti i ritrovati scientifici (in via di ininterrotta elaborazione e correzione) con il simultaneo riconoscimento - non meno fondamentale - del carattere obiettivo del grandioso patrimonio di conoscenze da essi a grado a grado costruito.
VII. Per una nuova cultura.
Parlare di esigenza di una nuova cultura significa riconoscere l'insufficienza di quella attuale, riconoscere cioè che questa presenta dei difetti gravissimi i quali le impediscono di assolvere i compiti che ogni epoca ha sempre assegnato agli indirizzi culturali più rappresentativi dell'epoca stessa.
È ovvio che queste deficienze riflettono le profonde contraddizioni della società in cui viviamo, cosicché non ci si può illudere di attuare un autentico rinnovamento della cultura della nostra epoca senza superare coraggiosamente tali contraddizioni. Il franco riconoscimento della necessità di impegnarci direttamente nella trasformazione delle strutture della nostra società non ci esime, tuttavia, dal dovere di operare contemporaneamente anche nel campo sovrastrutturale, allo scopo di cogliere in forma precisa le più significative deficienze della cultura attuale e indicare alcuni caratteri che dovrebbero essere presenti in una cultura veramente nuova.
Oggi si parla molto - e in modo spesso equivoco - di conflitto delle due culture: quella scientifica e quella umanistica. È bene quindi iniziare la nostra analisi con un breve esame di questo conflitto.
Quanto abbiamo detto nei paragrafi precedenti ci pone subito in guardia dalla pretesa di attribuire un significato chiaro e pregnante all'espressione "cultura scientifica". Se infatti prescindiamo da ciò che accade nell'ambito dei Paesi socialisti ove il problema presenta aspetti notevolmente diversi, appare molto dubbio che sia lecito parlare di vera e propria "cultura scientifica" in riferimento alle ricerche odierne di matematica, fisica, chimica, biologia ecc., ancora legate nella maggioranza dei casi al vecchio canone che lo scienziato serio non abbia alcunché da dire - come scienziato - al di fuori del proprio campo specialistico.
È bensì vero, come rilevammo più volte, che oggi si possono scorgere parecchi sintomi di un progressivo rinnovamento; vero è però che, fino a quando non ci si sarà decisi ad intraprendere coraggiosamente una efficace mediazione fra le indagini specialistiche e le indagini rivolte ad elaborare una concezione organica del mondo, il vero mosaico delle varie discipline scientifiche rimarrà ancora ben lungi dal costituire un'autentica cultura. Ne è una riprova il fatto, abbastanza significativo, che parecchi studiosi pur molto seri di questa o quella disciplina scientifica continuano a considerare come "vera cultura" solo quella umanistica, cercando di coltivarla privatamente con sincera passione nelle ore lasciate loro libere dagli "impegni professionali".
Sembra certo, invece, che il complesso degli studi umanistici meriti incontestabilmente il titolo di "cultura". La ragione di ciò sta nel fatto che l'umanista non può esimersi dal fare appello a concezioni generali, se pure riferite essenzialmente al mondo umano. In parecchi casi egli è ben consapevole che tale limitazione preconcetta risulta a rigore ingiustificata, ma, trovandosi nell'impossibilità di assimilare le grandi linee della scienza contemporanea, si accontenta - volente o nolente - di fare riferimento, per quanto riguarda il mondo della natura, alle concezioni "classiche” di essa, o ricorre addirittura a vecchie immagini mitiche sia pure interpretate in senso puramente allegorico. Analizzando con il suo solito acume questa situazione, Elio Vittorini giunse, or sono pochi anni, alla conclusione che "in realtà la cultura è sempre basata sulla scienza; sempre contiene la scienza"; salvo che quella oggi solitamente chiamata "cultura umanistica" è a rigore "una cultura vecchio-scientifica". In altri termini: essa è una cultura unitaria, universale, impegnata su tutti i grandi problemi, ma irrimediabilmente vecchia, e perciò inadeguata alla nostra epoca.
Il presunto conflitto tra le due culture si presenta dunque, a un esame critico spregiudicato, come uno pseudo-problema: cioè come conflitto fra un aggregato in gran parte disorganico di ricerche specialistiche, non costituenti un'autentica cultura e - di contro - una cultura, degna sì di questo nome, ma antiquata, sorpassata, e ormai priva di vitalità. Il vero problema che emerge dall'analisi testé accennata è pertanto il seguente: non di stabilire un ponte più o meno vacillante tra le due "culture dimezzate", ma di creare una nuova autentica cultura che sia però - sempre per usare le parole di Vittorini - "una cultura nuovo-scientifica".
Facendo riferimento a quanto esposto nelle pagine precedenti, possiamo aggiungere che tale cultura "nuovo-scientifica" dovrà impegnarsi direttamente, per risultare degna di questo nome, sul problema fondamentale dell'elaborazione della nuova concezione del mondo.
Come il lettore ricorderà, non abbiamo nascosto - mentre cercavamo di analizzare le condizioni cui deve soddisfare una concezione del mondo per potersi dire veramente moderna - la nostra personale propensione verso la concezione materialistica-dialettica. Ora però occorre precisare che, sostenendo la necessità che venga quanto prima elaborata una cultura "nuovo-scientifica", non intendiamo affatto asserire che essa dovrà necessariamente basarsi su una concezione siffatta. Nulla esclude cioè, in via di principio, la possibilità che emergono anche altre concezioni del mondo (sebbene per ora non se ne scorga alcun preavviso) parimenti connesse ai più moderni risultati della scienza e della critica metodologica.
È invero accaduto più volte, come ricordammo nel paragrafo 1, che entro una medesima cultura siano stati ideate e difese, da pensatori diversi, due o anche più concezioni alternative del mondo; l'importante è, se ciò dovesse ripetersi nella situazione attuale, che non si spaccino come moderne delle concezioni "vecchio-scientifiche". Occorrerà in ogni caso, com'è naturale, che ciascuna di esse venga esposta con la massima chiarezza, che ne siano analizzate con rigore razionale tutte le prove a favore e tutte le difficoltà, e infine se ne rendano esplicite le molteplici conseguenze. Il conflitto tra forme diverse di pensiero razionalistico è sempre stato molto stimolante, in quanto ha costretto i sostenitori di tali forme ad affinare e approfondire le proprie argomentazioni, enucleando i punti nodali, né vi è motivo di ritenere che le cose cambino in futuro.
Un rinnovamento autentico della cultura odierna non esclude affatto conflitti del genere. Esclude invece la timidezza teoretica di chi non osa affrontare direttamente i grandi problemi o cerca mediazioni equivoche tra concezioni antitetiche; esclude le posizioni confuse, le incertezze sui problemi di fondo, i patteggiamenti, i compromessi che possono forse riuscire utili in altri campi ma non certamente nel campo del pensiero.
Abbiamo detto più volte di non ritenere che la nostra epoca sia priva di interesse per le concezioni generali. Con riferimento ai possibili conflitti ora accennati, vogliamo qui ribadire che, a nostro parere, essi sono tuttora in grado di appassionare ogni serio studioso, purché non invochino argomenti esclusivamente retorici, privi di qualsiasi aggancio concreto con quella rivoluzione scientifico-tecnica che costituisce uno degli eventi più grandiosi dei tempi in cui stiamo vivendo. Non è vero che oggi si possa fare tranquillamente a meno di una filosofia: ciò che si vuole è, però, una filosofia la quale sappia tenere effettivamente conto del continuo accrescersi delle scoperte scientifiche, e nel contempo non si lasci condizionare dallo spirito specialistico.
Non è vero che questa esigenza sia unicamente sentita da una ristretta aristocrazia intellettuale. Al contrario, essa è vivamente presente proprio nelle masse, come risulta ben noto a tutti i più seri pensatori marxisti i quali hanno sempre sostenuto che la filosofia è essenziale alla cultura proletaria. Ciò che le masse non possono tollerare, una volta liberatesi dalle vecchie concezioni mitiche, è che si rinunci, per una sorta di raffinatezza intellettuale, a tentare di colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa di tali concezioni; che si rinunci cioè ad elaborare nuove forme interpretative del mondo, più adeguate alle conoscenze e ai problemi odierni. Taluni critici pretenderebbero scorgere, in questo atteggiamento, una specie di disposizione al dogmatismo, cioè il bisogno di sostituire un dogma con un altro; in realtà si tratta, invece, di una chiara consapevolezza delle tesi da noi sostenute nelle pagine precedenti, e cioè che non si può costruire una vera cultura senza fondarla su una nuova visione del mondo. Il razionalista moderno ha il dovere di tenere conto di questa esigenza e di tentare di soddisfarla con le argomentazioni più serie e più valide di cui dispone, facendo a tal fine ricorso ai risultati più maturi delle proprie ricerche scientifico-filosofiche.
Il pregiudizio che si debbano tenere due discorsi - uno fideistico per le masse e uno rigorosamente argomentato per gli "uomini di studio"-continua tuttavia ad essere ancora oggi uno dei più grandi ostacoli ha una diffusione, modernamente intesa, della cultura. Esso fu già combattuto con tenacia, ma tutt'altro che debellato, dall'illuminismo. La realtà è che viene costantemente mantenuto in vita da forze politico-economiche, le quali non hanno alcun interesse per la cultura e tanto meno per il suo rinnovamento.
Oggi, tuttavia, non sembra più sufficiente limitarsi a proseguire la battaglia degli illuministi. Ed infatti, mentre questi ritenevano che l'elaborazione della cultura aspettasse per intero agli intellettuali - i quali avrebbero poi dovuto diffonderla fra le masse (allora si pensava, in pratica, soltanto le masse borghesi) - la società attuale caratterizzata da un notevole dinamismo, non può più attribuire alle masse una funzione esclusivamente passiva. Queste hanno dimostrato in più occasioni di essere le vere protagoniste della storia, e sarebbe ridicolo non considerarle come protagoniste anche dello sviluppo della cultura.
Nel capitolo precedente ci si è soffermati a lungo sulle difficoltà che si frappongono a una reale democratizzazione della scuola e della cultura. Il problema che qui ci interessa è invece un altro: è quello di individuare i compiti che le masse sono chiamate ad assolvere una volta entrate - attraverso le lotte politiche - a far parte attiva dello sviluppo della cultura (per ciò stesso democratizzata).
Il primo compito che esse si sono già responsabilmente assunte al profilarsi stesso di questa nuova posizione, è come poco sopra accennato, quello di richiamare tutti gli studiosi al dovere di far assumere alla scienza un autentico significato culturale. È un richiamo di cui Lenin si è fatto ripetutamente interprete, fino agli ultimi anni della sua vita. Ciò significa che, se il proletariato ha da compiere un'autentica rivoluzione non solo nelle strutture della società ma anche nell'ambito del pensiero, esso non può fare a meno di battersi con vigore per diffondere una coscienza scientifica di massa, quale condizione imprescindibile perché l'umanità riesca finalmente liberarsi da tante pericolosissime servitù del passato. Deve, in altri termini, assumere su di sé la direzione della lotta rivolta ad estirpare alle radici il male della "neutralità teoretica" della scienza, riconoscendo sì con franchezza l'efficacia pratica delle sue ininterrotte conquiste, impegnandola però d'altro canto nella costruzione di una nuova concezione del mondo davvero razionale e moderna.
Ma in questi ultimi tempi le masse hanno dimostrato (ad esempio con la “rivoluzione culturale” cinese) di saper esercitare anche un'altra funzione in certo senso ancora più importante: non solo quella di esigere una cultura apertamente impegnata sui problemi centrali (teoretici e pratici) della nostra epoca, ma anche quella di denunciare e combattere i pericoli -sempre incombenti - della stagnazione burocratica.
Sarebbe un grave errore ritenere che la cultura - una volta acquisita una chiara consapevolezza della propria funzione entro lo sviluppo della civiltà - si trovi per ciò stesso libera da questi pericoli. In realtà le cose vanno ben diversamente, perché è proprio il tipo di lavoro affrontato dall’intellettuale che tende, anche al di là delle sue intenzioni, a rinchiuderlo in certi schemi, a farlo dialogare solo con chi conosce il linguaggio colto, a ritenersi in una posizione di assoluta superiorità rispetto al resto dell'umanità.
Quanto testé accennato costituisce un nuovo aspetto, precedentemente trascurato, della "neutralità" della cultura (e in particolare della scienza). Finora abbiamo identificato questa neutralità, perlomeno in riferimento al suo nucleo più specificatamente teoretico, con la chiusura che caratterizza il cattivo specialista (incapace di impegnarsi al di là dei limiti del suo campo di indagine). Adesso dobbiamo considerarla anche da un altro punto di vista non meno importante: come rigida fedeltà dello studioso (specialista o non specialista) a certi temi di indagine dogmaticamente ritenuti intoccabili; cioè come incapacità di rivoluzionare le categorie tradizionali della conoscenza, di porre in discussione i canoni cui sogliono uniformarsi le nostre valutazioni, di stabilire una stretta corrispondenza tra la cultura e la perenne dialettica del mondo umano e naturale. È una mentalità che si esprime nella burocratizzazione e nella sclerotizzazione dei dibattiti, delle ricerche, degli stessi nostri programmi per il futuro.
Si tratta ovviamente di un male che è sempre stato alla radice dell'invecchiamento della cultura, ed è ben comprensibile che oggi venga considerato un pericolo gravissimo per il movimento, che qui auspichiamo, di reale adeguamento delle istanze culturali alle più profonde esigenze della nostra epoca (epoca caratterizzata da radicali rivolgimenti, non inquadrabili in un alcun in alcuno schema meccanico).
Ebbene, sono ancora una volta le masse ad essere le sole a poter decidere vittoriosamente la lotta contro tale pericolo, sulla base del loro intrinseco dinamismo, del minor peso su di esse esercitato dei vecchi schemi culturali, del coraggio con cui sanno aggredire il nucleo centrale dei problemi. Il loro intervento in questa lotta può talvolta assumere aspetti sconcertanti, in quanto può perfino apparire diretto contro la cultura in sé.
Un esame più accurato e più profondo ci dimostra, però, che lo scopo di tale intervento è un altro: è quello di ridare alla cultura un'autentica libertà, di interrompere un processo che tende a isolarla dalla realtà, di distruggere i germi di invecchiamento che ne ostacolano lo sviluppo, in forma subdola e talvolta impercettibile.
La nuova cultura non ha il diritto di rifiutare questo intervento per malcelate preoccupazioni aristocratiche. Essa può rivelarsi veramente nuova solo se acquisterà piena consapevolezza dei nessi dialettici che la legano con l'intera società, e in particolare con le forze più vive e genuine che oggi ne determinano le rapide, irrefrenabili , radicali trasformazioni .
Note:
Tratto da “Storia dei pensiero filosofico e scientifico” . Garzanti editore, ed. 1981, vol. IX ( II Novecento (3) , cap. p. 535