Last name:

 La VOCE   COREA   CUBA   JUGOSLAVIA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA   ARTE 

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE 2002

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  


GIÙ

SU


La VOCE ANNO XXII N°6

febbraio 2020

PAGINA 5

Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Segue da Pag.4: Cina e antiterrorismo di Li Wei

Il primo merito di Li Wei è proprio questo, nel primo capitolo analizza il terrorismo da un punto di vista storico e ne individua i confini. Chiarire i concetti serve per analizzare la realtà con un unico metro di giudizio. Esattamente il contrario dell'Occidente che, come giustamente fa notare l'Autore, non ha mai condannato il terrorismo ceceno e caucasico il quale ha pericolosissimi rapporti con quello wahabita. A proposito del terrorismo in Russia è significativo ricordare i drammatici fatti del settembre 2004 quando spietati terroristi entrarono nella scuola Numero uno di Beslan e sequestrarono circa 1300 persone in maggioranza bambini, scrive Guy Mettan “non appena la scuola viene ripresa e il sangue si asciuga sui muri, ecco che i media occidentali si scatenano. Non contro i carnefici islamici, come sarebbe stato naturale, ma, paradossalmente, contro le vittime e i loro liberatori”. Come in Cecenia anche in Siria l'atteggiamento occidentale è stato quanto meno ambiguo, il comandante di Al Nusra (legata ad Al Qaida) ha ammesso di avere ricevuto armi dagli Stati Uniti i quali hanno anche curato l'addestramento di queste milizie [pag. 150]. Gli Usa continuano a giocare pericolosamente con il terrorismo così come fecero in chiava antisovietica in Afghanistan.

Sarà forse questo il motivo per cui il terrorismo continua a crescere? È infatti questo il dato più sorprendente che emerge, le attività terroristiche dal 2000 al 2014 sono aumentate del 20,87% [pag. 241].

L'ultimo capitolo è dedicato alla lotta cinese contro il terrorismo, che si intreccia con la costruzione della nuova via della seta assieme alla quale è stato proposto il concetto della costruzione di una comunità dal 'Futuro Condiviso per l'umanità'. La Bri 'è una quintessenza della saggezza cinese che dura da secoli. Cattura la gloria passata dell'Eurasia, mentre scopre le regole per ricreare questi magnifici successi passati' [pag. 239]. È un'obiettivo ambizioso destinato a cambiare il mondo ma per fare questo è necessario un sistema internazionale stabile e pacifico.

Diventa quindi centrale la lotta al terrorismo a partire dallo Xinjiang dove le forze afferenti al Turkestan orientale si sono fatte protagoniste di efferati attentati. La risposta al terrorismo non può essere solo militare, il primo concetto che Li Wei sottolinea è che l'Islam è una religione 'di pace, carità e tolleranza' [pag. 187]. È un'affermazione molto importante, che andrebbe spiegata a chi accusa l'Iran sciita di terrorismo nello stesso momento in cui va a braccetto con i wahabiti sauditi (finanziatori dell'Isis oltre che del terrorismo che negli ultimi anni ha insanguinato il mondo da Sarajevo allo Xinjiang passando per la Siria e il Caucaso). Per battere il terrorismo non bisogna combattere contro l'Islam, bisogna capire che esso è il primo alleato in questa battaglia assieme allo lotta alla povertà ed al sottosviluppo i quali 'sono fattori comuni che contribuiscono all'aumento del terrorismo' [pag. 189].

Solo partendo da queste premesse la lotta al terrorismo può avere esiti positivi, perché essa godrà dell'appoggio popolare. In quest'ottica è importante anche la cooperazione internazionale ed il ruolo dello SCO fondamentale perché questa organizzazione 'diventerà una forza potente per promuovere la cooperazione internazionale' [pag. 204].

Il terrorismo è diventato un elemento costante del XXI secolo ma non è invincibile, il messaggio che arriva da Li Wei è questo: lo sviluppo ed il progresso cinese sono un aiuto non solo per la Cina ma per tutto il mondo, sta noi sapere stringere questa mano.

Note:
Mettan, Guy; Russofobia. Mille anni di diffidenza, pag. 57, Sandro Teti editore, 2016.

L'industria bellica capitalizza a Wall Street
i venti di guerra in Iran



Il capitale e la guerra: un vecchio binomio che viene riconfermato dagli eventi di questi giorni. Azionisti e amministratori delle grandi aziende dell’apparato militar-industriale statunitense stanno già beneficiando della possibile guerra con l’Iran grazie all’aumento di valore dei loro titoli in borsa.

Le prospettive di guerra in Iran sono terrificanti. Gli esperti prevedono milioni di morti se le attuali tensioni dovessero sfociare in una guerra aperta. Altri milioni diventerebbero rifugiati riversandosi in tutto il Medio Oriente, mentre le famiglie dei lavoratori negli USA sosterranno, come sempre, il costo in termini di vittime.

Ma c’è una classe sociale che è pronta a beneficiare dell’escalation del conflitto: gli amministratori delle grandi imprese committenti delle forze armate degli Stati Uniti.

Di questo si è avuta evidenza nell’immediato seguito dell’assassinio da parte USA dell’alto ufficiale militare iraniano il 2 gennaio. Non appena l’informazione ha raggiunto i mercati finanziari, il corso dei titoli azionari di queste aziende è schizzato verso l’alto.

Gli intermediari di Wall Street sanno bene che una guerra con l’Iran significherebbe contratti redditizi per i fabbricanti di armi statunitensi. Poiché gli amministratori e gli alti dirigenti di queste aziende ricevono parte dei loro compensi sotto forma di pacchetti azionari, essi beneficiano anche a titolo personale quando il valore delle azioni della loro azienda aumenta.

Abbiamo verificato i pacchetti azionari detenuti dagli amministratori delegati dei cinque principali gruppi fornitori del Pentagono: Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman. Secondo gli ultimi dati disponibili abbiamo potuto stimare che questi cinque alti dirigenti detenevano azioni delle rispettive aziende da loro amministrate per un valore complessivo di circa 319 milioni di dollari USA pochi giorni prima del raid del drone americano che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani. Alla chiusura della sessione di trattazioni del mercato azionario del giorno dopo tale valore era già salito a 326 milioni di dollari.

I profitti da guerra non rappresentano niente di nuovo. Nel 2006, nel culmine della guerra in Iraq, analizzando i compensi percepiti dagli amministratori delegati delle 34 grandi imprese committenti delle forze armate dell’epoca era emerso che questi erano aumentati considerevolmente dopo gli attentati dell’11 settembre. Tra il 2001 e il 2005 i compensi degli amministratori delegati di imprese fornitrici delle forze armate erano aumentati in media del 108% a fronte di un aumento medio del 6% dei loro omologhi nelle grandi aziende di altri settori.

Il Congresso deve intervenire per prevenire una guerra catastrofica in Iran. Far rientrare le attuali tensioni è la priorità immediata. Ma il Congresso dovrebbe anche prendere l’iniziativa per porre fine ai profitti derivanti dalla guerra. Nel 2008 John McCain, allora candidato presidenziale repubblicano, aveva proposto di porre un tetto ai compensi degli amministratori delegati delle aziende beneficiarie di piani di salvataggio pubblici, sostenendo che tali amministratori, in quanto supportati dai soldi dei contribuenti non avrebbero dovuto guadagnare più di $ 400.000 dollari annui, che rappresenta lo stipendio del Presidente degli USA.

Un principio analogo dovrebbe essere esteso a tutte le aziende che beneficiano di massicce entrate derivanti da contratti sostenuti da fondi pubblici. Il Sen. Bernie Sanders, ad esempio, ha proposto un piano per escludere dai contratti federali quelle aziende che retribuiscono eccessivamente i loro amministratori. E ha proposto di fissare un limite ai compensi degli alti manager ad una soglia di 150 volte il salario tipico di un lavoratore della stessa azienda.

Attualmente non ci sono limiti ai compensi degli amministratori di queste imprese e il settore della difesa è il primo a distinguersi in tal senso. I cinque principali committenti del Pentagono hanno pagato i propri alti dirigenti una media di 22,5 milioni di dollari annui nel 2018.

Le restrizioni ai compensi degli amministratori delegati si dovrebbero estendere ai vertici di tutte le altre aziende committenti pubbliche, che attualmente non sono tenute a rivelare il livello delle
buste paga dei propri alti dirigenti. È questo il caso della General Atomics, azienda che produce il drone MQ-9 Reaper che ha eseguito l’assassinio di Soleimani. Nonostante i 2,8 miliardi di dollari di contratti pubblici nel 2018, all’azienda è consentito di mantenere segreta l’informazione sui compensi dei propri alti dirigenti.

Secondo delle stime rese note dalla rivista Forbes sappiamo che l’amministratore delegato di General Atomics, Neal Blue, ha prosperato sui soldi pubblici con un patrimonio personale di circa 4,1 miliardi di dollari.

La guerra è una cosa brutta per quasi tutti. Ma finchè continueremo a consentire ai capi della nostra economia privata di guerra di ottenere compensi illimitati, la loro sete di profitto per una guerra in Iran - o in qualunque altro luogo - persisterà.

L’autrice dell’articolo dirige il Global Economy Project presso l’Institute for Policy Studies ed è co-editrice del sito Inequality.org. Questo articolo è tratto da OtherWords.org in regime di CC (Creative Commons).

Pubblicato su: People’s World, 9 gennaio 2020 - Traduzione per La Città Futura di Zosimo


Wikileaks, Assange è colpevole
di aver detto la verità



di Rossella Guadagnini - (20 gennaio 2020)

"Di' la verità anche se la tua voce trema", Daphne Caruana Galizia
L'udienza per la richiesta di estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti è stata fissata per la fine di febbraio: se venisse accettata il fondatore di Wikileaks potrà essere trasferito in un carcere americano, dove lo aspettano un procedimento con 18 capi di imputazione e una condanna a 175 anni. Nel caso in cui il 48enne giornalista australiano venisse estradato non avrà più la possibilità di tornare indietro e, probabilmente, morirà in carcere. Il suo legale ha chiesto, nel corso dell'udienza preliminare a Londra il 13 gennaio scorso, più tempo al fine di esaminare meglio la posizione difensiva, dal momento che gli sono stati concessi pochissimi incontri per parlare con l'assistito, il quale non ha avuto neppure modo di esaminare i documenti del procedimento che lo riguarda.

"Resta forte Julian, stiamo combattendo per te. Non gli permetteremo di farti questo! Ricordalo! Resta forte, sarai libero!", gli ha gridato uno sconosciuto, in mezzo alla piccola folla di attivisti, mentre era a bordo del van della polizia, che -dopo la visita alla Westminster Magistrates Court- lo trasportava nuovamente nella sua cella, nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel sud est di Londra, dove è segregato dall'aprile del 2019. In precedenza ha trascorso sette anni nell'ambasciata londinese dell'Ecuador, dove aveva chiesto asilo politico, che in seguito gli è stato negato.

Il giornalista è uno dei personaggi più controversi degli ultimi dieci anni: da alcuni è ritenuto un eroe che ha messo in gioco la sua libertà per avere reso pubblici decine di migliaia di documenti riservati e segretati attraverso il sito Wikileaks, da lui stesso creato. Per altri invece è un pericoloso sovversivo, una spia che merita il carcere a vita. Certo è che, quale che sia il futuro del giornalista, il suo destino rappresenta un caso emblematico della libertà di stampa nel XXI secolo.

Assange ha preso parte all'udienza senza fare alcuna affermazione ufficiale. Tuttavia è bastata questa breve apparizione per riaprire il dibattito sulla sua detenzione, che ha suscitato recenti appelli internazionali di medici, giornalisti e personaggi di primo piano del mondo della cultura, tra cui anche il linguista e filosofo Noam Chomsky. Il suo aspetto esteriore ha rassicurato i sostenitori, dopo i timori suscitati in seguito alla diffusione di alcune immagini in cui appariva in cattivo stato di salute e trascurato.

Anche in Italia chi crede nella necessità di liberare il fondatore di Wikileaks è tornato a farsi sentire. "La vicenda di Assange, le accuse più disparate, il trattamento iniquo e le violazioni dei diritti umani che ha dovuto subire dimostrano come le cosiddette 'grandi democrazie' occidentali -in particolare, Stati Uniti e Gran Bretagna- non hanno rispetto delle persone e nemmeno delle loro stesse leggi", sostiene il generale Fabio Mini. Cofondatore dell'associazione Peace Generation, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e le operazioni di pace condotte dalla Nato nella guerra in Kosovo.

"Non occorre essere complottisti -prosegue- per riconoscere che l'accanimento contro Assange è dovuto a un solo, grave, delitto: aver detto la verità. E, ancor peggio, non aver aggiunto nulla di suo a quanto americani e inglesi affermavano e facevano in spregio a qualsiasi umanità e logica, in guerra e in pace, con i nemici e gli alleati. Ma se la persecuzione di questi 'paladini della libertà e della democrazia' non stupisce, è invece assordante il silenzio che tutti gli altri Stati mantengono da anni, invece di insorgere non soltanto per ciò che sta accadendo ad Assange, ma per ciò che si è limitato a svelare".

La comunità internazionale, i servizi d'intelligence, gli eserciti e i politici del mondo "gli sono debitori di molte rivelazioni che nemmeno immaginavano o che si rifiutavano d'immaginare -osserva poi Mini- Piuttosto che ammetterle, fingono di non averle mai sentite o dicono che si tratta di nefandezze giustificate in quanto parte della guerra e della politica. Il silenzio degli 'altri', però, autorizza i 'paladini' a insistere con le menzogne, mentre Assange dev'essere lasciato libero -fisicamente e psicologicamente- anche di difendersi o di accusare. In entrambi i casi abbiamo tutto da guadagnare".

Ad appoggiare le ragioni del fondatore di Wikileaks, che sta pagando con la vita "a vantaggio di noi tutti, la difesa della libertà" c'è anche il diplomatico Alberto Bradanini, già ambasciatore italiano in Iran e in Cina, che qualche mese fa ha lanciato una petizione per la sua liberazione. Questa prigionia ingiustificata testimonia a suo avviso "la pretesa di dominio imperiale dell’élite americana, che teme la verità ed è in preda al panico per il fatto che comuni cittadini possano conoscere trame oscure, corruttele e manipolazioni politiche e mediatiche, messe in opera da quella che si autoproclama la ‘più grande democrazia del mondo’".

Attraverso la pubblicazione di migliaia di documenti degli apparati americani, "ricevuti senza violare alcuna norma, ma solo svolgendo la professione di giornalista -precisa il diplomatico italiano- Assange ha mostrato come operino strutture Usa occulte o semiocculte. Queste dispongono di ingenti risorse finanziarie e tecnologiche, con cui raccolgono dati su nemici e amici, finanziano tensioni, aggressioni politiche ed economiche, ‘rivoluzioni’ e conflitti contro nazioni, organizzazioni, imprese o individui che non si sottomettono al loro potere e volere. Tutto ciò a beneficio di una minoranza, la plutocrazia dell’1% contro il 99% di una popolazione precarizzata ed eticamente manipolata, che alimenta il mito della ‘nazione indispensabile’, voluta da Dio per governare un mondo recalcitrante".

Con questa richiesta di estradizione gli Stati Uniti si pongono, secondo Bradanini, "al di sopra del diritto (nazionale e internazionale), della libertà di stampa, cruciale in un sistema democratico, e del rispetto dei diritti umani, com'è evidente anche dalla decisione di tenere aperta la prigione di Guantanamo", che Obama aveva promesso di abolire, dove si può essere "rinchiusi senza limiti di tempo e torturati senza aver subito alcuna condanna penale".

Gli abusi subiti da Assange, con la complicità del governo britannico -conclude l'ex ambasciatore- possono giustificarsi "solo nella presunzione che i cittadini debbano restare all’oscuro di quel che fanno apparati paralleli e servizi di intelligence. Il fondatore di Wikileaks appare come uno dei grandi della scena politica contemporanea, a favore del quale dovrebbero mobilitarsi le nazioni europee. L’Italia democratica e costituzionale -guidata da due partiti che per storie diverse si attribuiscono grande sensibilità nei confronti dei temi etici- potrebbe offrire asilo politico a Julian Assange".

Ma dove trovare il coraggio civile per un passo del genere?

  P R E C E D E N T E   

    S U C C E S S I V A  

Stampa pagina

 Stampa inserto 

La VOCE 2002

 La VOCE   COREA   CUBA   JUGOSLAVIA   PALESTINA   RUSSIA   SCIENZA   ARTE 

Visite complessive:
Copyright - Tutti gli articoli possono essere liberamente riprodotti con obbligo di citazione della fonte.