"Abbiate il coraggio di restare soli"
La lettera del sindaco, letta FC ieri in piazza a Riace.
È inutile dirvi che avrei voluto essere presente in mezzo a voi non solo per i saluti formali ma per qualcosa di più, per parlare senza necessità e obblighi di dover scrivere, per avvertire quella sensazione di spontaneità, per sentire l’emozione che le parole producono dall’anima, infine per ringraziarvi uno a uno, a tutti, per un abbraccio collettivo forte, con tutto l’affetto di cui gli esseri umani sono capaci.
A voi tutti che siete un popolo in viaggio verso un sogno di umanità, verso un immaginario luogo di giustizia, mettendo da parte ognuno i propri impegni quotidiani e sfidare anche l’inclemenza del tempo. Vi dico grazie.
Il cielo attraversato da tante nuvole scure, gli stessi colori, la stessa onda nera che attraversa i cieli d’Europa, che non fanno più intravedere gli orizzonti indescrivibili di vette e di abissi, di terre, di dolori e di croci, di crudeltà di nuove barbarie fasciste.
Qui, in quell’orizzonte, i popoli ci sono. E con le loro sofferenze, lotte e conquiste. Tra le piccole grandi cose del quotidiano, i fatti si intersecano con gli avvenimenti politici, i cruciali problemi di sempre alle rinnovate minacce di espulsione, agli attentati, alla morte e alla repressione.
Oggi, in questo luogo di frontiera, in questo piccolo paese del Sud italiano, terra di sofferenza, speranza e resistenza, vivremo un giorno che sarà destinato a passare alla storia.
La storia siamo noi. Con le nostre scelte, le nostre convinzioni, i nostri errori, i nostri ideali, le nostre speranze di giustizia che nessuno potrà mai sopprimere.
Verrà un giorno in cui ci sarà più rispetto dei diritti umani, più pace che guerre, più uguaglianza, più libertà che barbarie. Dove non ci saranno più persone che viaggiano in business class ed altre ammassate come merci umane provenienti da porti coloniali con le mani aggrappate alle onde nei mari dell’odio.
Sulla mia situazione personale e sulle mie vicende giudiziarie non ho tanto da aggiungere rispetto a ciò che è stato ampiamente raccontato. Non ho rancori né rivendicazioni contro nessuno.
Vorrei però a dire a tutto il mondo che non ho niente di cui vergognarmi, niente da nascondere. Rifarei sempre le stesse cose, che hanno dato un senso alla mia vita. Non dimenticherò questo travolgente fiume di solidarietà.
Vi porterò per tanto tempo nel cuore. Non dobbiamo tirarci indietro, se siamo uniti e restiamo umani, potremo accarezzare il sogno dell’utopia sociale.
Vi auguro di avere il coraggio di restare soli e l’ardimento di restare insieme, sotto gli stessi ideali.
Di poter essere disubbidienti ogni qual volta si ricevono ordini che umiliano la nostra coscienza.
Di meritare che ci chiamino ribelli, come quelli che si rifiutano di dimenticare nei tempi delle amnesie obbligatorie.
Di essere così ostinati da continuare a credere, anche contro ogni evidenza, che vale la pena di essere uomini e donne.
Di continuare a camminare nonostante le cadute, i tradimenti e le sconfitte, perché la storia continua, anche dopo di noi, e quando lei dice addio, sta dicendo un arrivederci.
Ci dobbiamo augurare di mantenere viva la certezza che è possibile essere contemporanei di tutti coloro che vivono animati dalla volontà di giustizia e di bellezza, ovunque siamo e ovunque viviamo, perché le cartine dell’anima e del tempo non hanno frontiere.
Mimmo Lucano.
(Per favore fatela circolare dovunque e comunque.)
Le
amare esperienze fatte dopo la Rivoluzione
Le difficoltà generali della costruzione di uno Stato socialista e le difficoltà particolari della sua realizzazione, per la prima volta nella storia, in un paese solo e, per giunta, arretrato.
in
un paese arretrato e rimasto isolato a livello internazionale, per
il mancato estendersi del processo rivoluzionario ai paesi a
capitalismo avanzato,
inducevano Lenin a
rimettere in discussione la precedente teoria
della transizione,
sviluppata in base alle suggestioni della Comune
di Parigi,
che lo avevano portato ad asserire: “il potere sovietico è
un nuovo tipo di Stato, senza burocrazia, senza polizia, senza
esercito permanente, che sostituisce la democrazia borghese con una
nuova democrazia, una democrazia che pone in primo piano
l’avanguardia delle masse lavoratrici, rendendole capaci di
esercitare il potere legislativo, il potere esecutivo e la difesa
militare, e crea un apparato che può rieducare le masse”
[1].
Dunque,
questa concezione che doveva rivelarsi ben presto utopista,
secondo la quale sarebbe stato sufficiente spezzare
lo Stato borghese per
sostituirlo con la democrazia
proletaria,
aveva in un primo momento contagiato lo stesso Lenin che, in polemica
con Kautsky,
asseriva: “in
Russia invece l’intero apparato burocratico è stato
spezzato, di esso non è rimasta pietra su pietra, tutti i
vecchi giudici sono stati rimossi, il parlamento borghese è
stato sciolto, e proprio agli operai e ai contadini è stata
data una rappresentanza molto più accessibile. Essi hanno
sostituito i funzionari con i loro Soviet o hanno posto i loro Soviet
al di sopra dei funzionari. Sono i loro Soviet a eleggere i
giudici”[2].
D’altra
parte, dinanzi alle difficoltà
incontrate nel realizzare tali alte
ambizioni –
in una realtà di enorme arretratezzadella società
civile e
delle forze
produttive –
che prevedevano un potere diretto esercitato dalle masse
rivoluzionarie in grado di spazzare via le strutture dello Stato
borghese a partire dalla burocrazia e
dall’esercito
stabile,
Lenin osserva amaramente ma, al contempo, realisticamente: “in
Russia tutto questo è appena cominciato, e cominciato male. Se
noi prendiamo
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coscienza di quello che c’è di male in ciò
che abbiamo cominciato, riusciremo a superarlo, se la storia ci darà
la possibilità di lavorare per un periodo di tempo sufficiente
a perfezionare questo potere sovietico”[3].
Del
resto, a differenza di quanto sostiene anche un autorevolissimo
studioso di tali problematiche, come Domenico
Losurdo [4],
le aspettative di Lenin – come del resto già quelle di
Marx – sulla possibilità di realizzare in tempi
relativamente brevi le istituzioni dello Stato socialista non sono
tanto frutto di utopismo,
quanto di un’esperienza e prospettiva
storica necessariamente limitata alla sola esperienza,
peraltro brevissima, della Comune.
Così è Lenin
stesso a chiarire la differenza fra la
propria posizione e quella degli “utopisti” che
“si
sono sempre sforzati di ‘scoprire’ le forme politiche
nelle quali doveva prodursi la trasformazione socialista della
società”. Allo
stesso modo Lenin ci tiene a marcare al contempo la differenza fra la
propria posizione e quella degli “anarchici” che “si
sono disinteressati della questione delle forme politiche in
generale”.
Mentre, infine, “gli
opportunisti dell’odierna socialdemocrazia hanno accettato le
forme politiche borghesi dello Stato democratico parlamentare come un
limite al di là del quale è impossibile andare; si sono
rotti la testa a furia di prosternarsi davanti a questo ‘modello’
e hanno tacciato di anarchico ogni tentativo di demolire queste
forme” [5].
Di
contro a tali posizioni, Lenin sottolinea come i comunisti, invece,
hanno dovuto essenzialmente creare ex
novo le
istituzioni del nuovo e storicamente
inedito Stato socialista nel fuoco della lotta,
avendo quale unico riferimento il limitato precedente storico della
Comune. Per tanto, anche su questa complessa questione, Lenin intende
attenersi al metodo marxiano: “senza
cadere nell’utopia, Marx aspettava dall’esperienza
di un movimento di massa la
risposta alla questione: quali forme concrete avrebbe assunto questa
organizzazione del proletariato come classe dominante e in che modo
precisamente questa organizzazione avrebbe coinciso con la più
completa e conseguente conquista
della democrazia?” [6].
Già in Marx, dunque, non vi è, sottolinea Lenin “un
briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società
‘nuova’. No, egli studia, come un processo di storia
naturale, la genesi della
nuova società che
sorge dall’antica,
le forme di transizione tra l’una e l’altra. Egli si basa
sui fatti, sull’esperienza del movimento proletario di massa e
cerca di trarne insegnamenti pratici. Egli ‘si mette alla
scuola’ della Comune, come tutti i grandi pensatori
rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei grandi
movimenti della classe oppressa, senza mai far loro pedantemente la
‘morale’”[7].
Lenin,
quindi, si rendeva benissimo conto che non era possibile edificare
una società socialista “con
le mani pulite dei socialisti puri, che devono nascere ed essere
educati in una società comunista” [8],
ma – nel corso di una lotta all’ultimo sangue con i
vecchi assetti economici, etici e sociali – occorreva partire
dalle macerie della società precedente, dalla cui barbarie e
dai cui pregiudizi anche il materiale
umano che
si accingeva all’opera era necessariamente condizionato. In
altri termini, il materiale umano con cui è necessario
edificare il socialismo non è stato possibile approntarlo in
precedenza, ma è quello ancora pesantemente condizionato dalla
precedente società. Va, inoltre, considerato che “il
cadavere della società borghese non può essere
rinchiuso nella bara e seppellito. Il capitalismo abbattuto
imputridisce, si decompone in mezzo a noi, infettando l’aria
con i suoi miasmi, avvelenando la nostra vita, afferrando quanto c’è
di nuovo, fresco, giovane, vivo con i mille fili e legami di ciò
che è vecchio, putrido, morto” [9].
Tanto che, ricorda Lenin, “è
questa società comunista appena uscita dal seno del
capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della
vecchia società, che Marx chiama la ‘prima’ fase
inferiore della società comunista” [10].
Del
resto, la stessa avanguardia della
classe egemone del nuovo
blocco sociale dominante nella
transizione al socialismo non è priva dei difetti e delle
debolezze ereditate dalla società zarista e ciò vale, a
maggior ragione, se si considerano le classi lavoratrici nel loro
complesso “oppresse,
abbrutite, strette per secoli nella morsa della miseria,
dell’ignoranza, della barbarie” [11].
Tale situazione è particolarmente grave in un paese a
maggioranza contadina come la Russia, dal momento che le masse
agricole non hanno potuto formarsi nella lotta metropolitana in cui è
possibile acquisire, almeno in parte, la cultura moderna. Tanto che,
osserva a tal proposito Lenin: “il
proletariato – voi lo sapete benissimo – non è
esente dai difetti e dalle debolezze della società
capitalistica. Esso lotta per il socialismo e al tempo stesso
combatte le sue proprie manchevolezze. La parte migliore,
l’avanguardia del proletariato, che per decenni ha condotto una
lotta disperata nella città, ha potuto nel corso di questa
lotta far sua tutta la cultura delle città e delle capitali, e
in una certa misura l’ha assimilata. Sapete che anche nei paesi
più progrediti la campagna è sempre stata condannata
all’ignoranza. Naturalmente noi eleveremo il livello culturale
nelle campagne, ma per far questo occorreranno anni e anni” [12].
Ricapitolando,
Lenin ritiene che “possiamo
(e dobbiamo) cominciare a costruire il socialismo non con un
materiale umano fantastico e creata appositamente da noi, ma con il
materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. La
cosa è senza dubbio molto ‘difficile’, ma ogni
altro modo di affrontare il problema è così poco serio
che non vale la pena di parlarne” [13].
..segue a pag.12./.
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