Il quantitative easing, l’acquisto di titoli sul mercato da parte della Bce, volge al termine e se ne può fare un bilancio. Ha certamente evitato il peggio, ma non si può dire che abbia ottenuto i risultati che si era proposto. Soprattutto, è stato una grande prova empirica degli errori delle teorie economiche dominanti
di Carlo Clericetti - (28 settembre 2018)
Il quantitative easing (QE), ossia l’acquisto straordinario di titoli di Stato e obbligazioni societarie da parte della Bce, sta per finire. Che bilancio se ne può fare?
Dei suoi effetti sull’economia si è già molto discusso, e se ne può fare un breve ricapitolo. Poco si è parlato, invece – almeno fuori dalle accademie – di un’altra conseguenza, di importanza anche maggiore, perché da essa dovrebbe derivare un rovesciamento delle politiche economiche europee. Che non sta avvenendo e non avverrà, cosa per cui ci sono motivi che si possono individuare.
Lo scopo dichiarato del QE era quello di ripristinare una corretta trasmissione della politica monetaria, evitare i pericoli di deflazione stimolando l’economia e riportare l’inflazione “sotto, ma vicina, al 2%”: quest’ultimo era forse quello considerato più importante, vista la missione affidata alla Bce dal suo statuto. Oggi, dopo tre anni e mezzo (il QE è iniziato nel marzo 2015), l’inflazione è intorno a quel livello in vari paesi dell’eurozona e nella media era proprio al 2% secondo gli ultimi dati (luglio), anche se quella cosiddetta “core”, cioè depurata dalle componenti più volatili (energia, cibi freschi, alcool e tabacchi) segnava solo + 0,9%.
Difficile collegare il QE con i prezzi al consumo. Quello che certamente ha ottenuto è stato di ridurre i rendimenti dei titoli di Stato, con beneficio dei bilanci pubblici, che hanno speso meno per pagare gli interessi sul debito. E di quelli delle banche, che da una parte hanno alleggerito il carico di titoli pubblici in portafoglio, e dall’altra hanno registrato l’aumento di prezzo di quelli che vi rimanevano. E però i tassi azzerati hanno ridotto all’insignificanza i profitti derivanti dalla gestione del denaro. E’ andata benissimo, invece, a chi doveva comprar casa, perché anche i tassi dei mutui sono scesi a livelli mai visti: nonostante questo, non si sono ripetute le “bolle” immobiliari che c’erano in vari paesi prima della crisi. In Italia, anzi, il settore dell’edilizia è stato quello che ha sofferto di più e ancora non si è del tutto ripreso.
La bolla, invece, si è prodotta sui prezzi delle azioni, con le Borse ai massimi storici. Il ribasso dei tassi sui titoli pubblici si è riflesso anche su quelli delle obbligazioni societarie. La grande liquidità in circolazione è andata in cerca di rendimenti migliori di quelli del reddito fisso; per di più le grandi conglomerate (soprattutto quelle americane) hanno usato il risparmio ottenuto sui prestiti per i famosi “buy back”, gli acquisti di azioni proprie, cosa che fa migliorare gli indicatori finanziari, ma, dettaglio forse non secondario, facendo salire le quotazioni manda alle stelle i bonus dei manager, di norma collegati alla performance borsistica. La riforma fiscale di Trump darà un’altra spinta a questo processo, perché probabilmente anche una buona parte dei maggiori profitti derivanti dai risparmi fiscali finirà in buy back.
Un altro effetto positivo è stato l’indebolimento dell’euro, che ha favorito le esportazioni, anche se ci si poteva aspettare un movimento ancora più deciso, dal momento che i tassi Usa hanno ripreso a salire mentre Draghi dichiarava che i nostri sarebbero stati fermi ancora a lungo.
Un aspetto negativo è stato invece l’ampliamento degli sbilanci sul sistema dei pagamenti Target 2, come ha detto lo stesso Draghi e ha poi ripetuto il vice presidente Vitor Constancio. Cosa provocata soprattutto dal fatto che gli acquisti di titoli dall’esterno dell’eurozona sono stati regolati attraverso la Bundesbank, che poi li cedeva alle varie Banche centrali nazionali, accumulando attivo sul saldo tedesco mentre per gli altri aumentava il passivo. È cosa che teoricamente può avere effetti pratici solo in caso di uscita dall’euro, ma segnala anche uno squilibrio che però, per questa parte, non dipende da andamenti economici ma da un fattore puramente tecnico. E però offre l’occasione ad alcuni economisti e opinionisti di diffondere idee allarmistiche, o addirittura, nei casi più estremi, di chiedere di “saldare il conto”.
Ma veniamo ora alla conseguenza più importante del QE: che è stata quella di demolire alcuni pilastri fondamentale delle teorie economiche dominanti, quelle utilizzate da chi detta le politiche economiche. Il primo pilastro raso al suolo è il legame tra quantità di moneta e inflazione. Quando la Federal Reserve Usa iniziò il suo QE (ben prima della Bce) non pochi economisti lanciarono l’allarme-inflazione: entro tre-sei mesi l’aumento dei prezzi si sarebbe scatenato. Ora, dopo un decennio che tutte le banche centrali più importanti (americana, europea, giapponese, inglese) inondano il mondo di liquidità, di impennate dei prezzi non si è vista l’ombra, e anzi abbiamo rischiato la deflazione.
Il secondo pilastro è quello secondo cui la politica fiscale, quella che si fa manovrando il bilancio pubblico, sarebbe inutile e dannosa, non servirebbe a superare le crisi e provocherebbe distorsioni dannose per l’economia. Questa veramente è un’ossessione essenzialmente europea, perché Usa, Giappone e Regno Unito, per citare i paesi più importanti, politiche fiscali espansive ne hanno fatte e come. Noi no: il “verbo” tedesco, imposto a tutta l’unione, afferma che l’equilibrio di bilancio viene prima di tutto. E poi se aumenta il deficit, suggerisce questa brillante teoria, famiglie e imprese si aspetteranno un prossimo aumento delle tasse per finanziarlo, dunque le famiglie risparmieranno per pagare questa tasse future, non alimentando i consumi, e le imprese non investiranno.
C’è chi fa osservare che l’ossessione europea è stata attenuata con l’introduzione dell’”output gap”, ossia la differenza tra il Pil effettivo e il Pil potenziale. Il concetto sarebbe che se cresci meno di quanto dovresti (ossia meno del Pil potenziale) ti concedo più spazio per la politica fiscale. Ma, a parte il modo di calcolare questo potenziale, largamente arbitrario e che a
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volte ha dato luogo a palesi assurdità, si tratta di spazi omeopatici, del tutto insufficienti ad ottenere risultati quando la crisi è pesante.
E allora come si fa ripartire l’economia? Da una parte con le mitiche “riforme strutturali”, il che significa soprattutto ridurre le protezioni sul lavoro,
precarizzare – pardon, “flessibilizzare” – abbassare il più possibile i salari. Dall’altra stimolando il sistema economico. Il QE, acquistando titoli dalle banche, ha fatto aumentare le loro riserve liquide, e in più si è arrivati a stabilire su queste riserve un tasso negativo, cioè le banche pagano se le tengono ferme (a parte la riserva obbligatoria). Questo avrebbe dovuto spingerle a prestare e le imprese avrebbero dovuto usare quei soldi per investire, facendo ripartire il ciclo. Teoricamente perfetto: peccato che non sia successo.
Come mai? Magari perché le imprese investono se pensano che riusciranno a vendere quello che producono. Ma le famiglie, con salari fermi o in calo e alta disoccupazione, il tutto condito con tagli al welfare, hanno poco da spendere. E nessun aiuto viene dal bilancio pubblico, con gli investimenti che in Italia sono calati a un terzo del periodo pre-crisi. Investire e produrre per riempire i magazzini? No, grazie.
Non solo. Anche la regolamentazione bancaria internazionale ci ha messo del suo, considerando rischiosi i prestiti all’economia assai più degli impieghi finanziari. Così, le banche che vogliono farli devono raccogliere più capitale di quelle che i soldi li giocano alla roulette. E bravi regolatori!
Ora il QE volge al termine, proprio mentre la debole crescita europea mostra segni di rallentamento. Ha tamponato i problemi, ma non li ha risolti. Sarà servito almeno a mettere in discussione le linee politiche seguite finora? Si può scommettere di no. Quelle politiche non hanno come obiettivo quello di far star bene il maggior numero possibile di persone, ma di realizzare una società competitiva dove alcuni prosperano, e gli altri peggio per loro: al massimo verranno tenuti buoni con qualche sussidio che li faccia sopravvivere, e dovranno pure ringraziare. È l’“economia sociale di mercato”, bellezza!
Il malinconico tramonto del PD è una catastrofe per le nostre élite neoliberali, resa più tragica dal parallelo afflosciarsi di Forza Italia, l’altra grande stampella del centrismo moderato che, alternandosi con i Dem, ha garantito una scrupolosa gestione degli interessi del grande capitale e delle sue istituzioni transnazionali (Ue in testa). È quindi più che comprensibile che “tecnici”, giornalisti e altri intellettuali dell’ancien regime neoliberista si prodighino quotidianamente per offrire i propri consigli in merito alle strategie per rianimare il moribondo, o almeno per infondergli energie sufficienti a fronteggiare la minaccia “populista” e “sovranista”. Da qualche tempo, tuttavia, gli specialisti accorsi al capezzale del malato sembrano nutrire scarse speranze sulle prospettive di guarigione. È il caso, fra gli altri, di Paolo Franchi, il quale, in un lungo articolo (“PD, il partito <<doppio>> che non riesce a discutere”) apparso sul Corriere del 24 settembre, sembra prossimo a emettere una prognosi infausta.
L’analisi di Franchi, lucida e spietata, si articola su tre punti fondamentali: 1) il PD è nato troppo tardi, quando i modelli internazionali che ne avevano ispirato il progetto erano già in crisi; 2) per tentare di sopravvivere dovrebbe operare una scelta secca fra due alternative reciprocamente incompatibili: ricostruirsi un’identità, o almeno un’immagine, di sinistra, oppure procedere senza esitazioni sulla via delle “riforme”, tentando di confluire in (o di costruire) un ampio fronte antipopulista: 3) posto che si tratta appunto di una scelta secca, deve essere disposto ad accettare l’eventualità di una scissione e a prendere atto che non può continuare a vivacchiare con l’attuale identità ibrida. Vediamo come Franco approfondisce i punti in questione.
Il PD è nato, più di dieci anni fa, attraverso una “fusione fredda” fra postcomunisti e postdemocristiani, un miscuglio mal riuscito di forze accomunate dall’ambizione di applicare all’Italia le lezioni di Bill Clinton e Tony Blair, due modelli già contestati a quei tempi, ma destinati a perdere qualsiasi credibilità di fronte alla grande crisi finanziaria del 2008 e ai suoi effetti devastanti sulle condizioni di vita, nonché sui livelli di occupazione e di reddito di centinaia di milioni di cittadini-elettori occidentali. A tenere in vita questo aborto al contrario (cioè nato non prematuro, bensì fuori tempo massimo) ci hanno provato prima Bersani, con il suo appello allo spirito di sopravvivenza della “ditta”, poi Renzi con il suo arrogante tentativo di costruire un partito personale sulle rovine della tradizione. Tentativi clamorosamente falliti come certificato dai risultati elettorali.
E adesso? O cerca di recuperare i milioni di elettori che hanno voltato le spalle non solo al PD ma alla sinistra in generale, o si rivolge a quell’elettorato moderato che si presume disponibile a mobilitarsi contro populismo e sovranismo. Obiezioni alla prima ipotesi: si tratta di “un campo di gioco ai limiti dell’impraticabilità”, che implica affrontare una campagna lunga, difficile e dall’esito incerto per ricostruire e/o ridefinire una nuova sinistra. Obiezioni alla seconda: compito altrettanto improbo, che verrebbe sicuramente premiato dal plauso dell’Economist ma difficilmente da quello di giovani, ceti popolari e classi medie. In ogni caso, è chiaro, scrive Franchi citando un articolo del Fatto, “che non si può tenere insieme chi vuol fare Corbyn e chi Macron”. Quindi o il PD ne trarrà le conseguenze oppure andrà verso un inevitabile destino di dissoluzione.
Analisi lucida e impeccabile, ripeto, con un paio di precisazioni. La prima è che chi scrive ritiene che la fine del PD sarebbe un’ottima cosa per il Paese, in quanto aprirebbe uno spazio politico per le forze, oggi deboli e disperse, che non temono di affrontare la traversata del deserto, cioè la lunga e difficile campagna per ricostruire/ridefinire la sinistra, per dirla con Franchi e che, aggiungo io, non temono di fare proprie parte delle istanze dei movimenti populisti e sovranisti, riqualificandole e ridefinendole in una prospettiva socialista. La seconda è che personalmente sono convinto che anche una separazione fra anima postcomunista e anima postdemocristiana sarebbe oggi tardiva, come lo è stata la loro fusione: nella migliore delle ipotesi ne verrebbero fuori, da un lato, un clone di Macron (il quale ha visto dissiparsi il proprio consenso in tempi brevissimi), dall’altro una sorta di Rifondazione 2.0, forse più grande, sicuramente più moderata e più inutile della versione originale.
Carlo Formenti - (25 settembre 2018)
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