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La VOCE ANNO XXI N°2

ottobre 2018

PAGINA F         - 38

L’autonomia del socialismo


di MICHELE PROSPERO (20 luglio 2018)
È stato da poco ripubblicato, per opera della casa editrice Bordeaux, il terzo dei saggi che inaugura il percorso marxista di Galvano Della Volpe, La libertà comunista (1946). Per riconsiderare il significato dell’iniziativa teorico-politica di Della Volpe, pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice e dell’autore, il quarto paragrafo dell’introduzione al testo di Michele Prospero.

Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15).

Indicativo è il sottotitolo dell’opera: saggio di una critica della ragion pura pratica. Il disegno di della Volpe è quello di sfidare Kant, assunto come momento di confluenza di liberalismo e cristianesimo sul piano della persona-valore, con le suggestioni “dell’umanismo aristotelico di Marx” (p. 31) che pone la società come mediazione tra il genere (il valore, l’etica, la cultura) e l’individuo (il particolare, il bisogno). Il confronto veniva impostato su basi sia gnoseologiche che etico-sostanziali. La debolezza cognitiva che accomunava liberalismo e cristianesimo era rinvenuta da della Volpe nella fondazione atomistica della società. Gli aspetti di metodo, la curva gnoseologica che contrasta ogni nozione di autocoscienza come trascendimento del ragionamento critico-discorsivo, sono appena accennati. Le prime utilizzazioni delle categorie di Marx furono tentate da della Volpe nel campo dell’etica con una critica serrata al culto della persona a priori, del soggetto pre-sociale e dell’individuo quale dato preistorico. L’individuo come valore originario o persona investita di valore mostra il fondamento giusnaturalistico (laico e religioso) dell’ordine politico e sociale moderno che si configura come “una estrema laicizzazione della caritas” (p. 12). Contro il “purismo morale”, proprio di ogni morale dell’intenzione d’ascendenza religiosa o nella sua versione secolarizzata di impronta laico-illuminista, della Volpe insisteva sulla rivalutazione dell’interesse, della trama relazionale mondana senza indulgenza alcuna verso gli appetiti dell’edonismo individualista, anch’esso astratto e metastorico.

Nella Libertà comunista era scolpita la critica della fondazione contrattuale della società come escogitazione che, postulando individui contraenti già definiti nelle loro prerogative prima ancora della storica configurazione del sistema sociale, è capace di precisare solo libertà (politiche e giuridiche) dall’ordine sociale e statuale. In tal modo, ogni libertà concreta sfumava in un orizzonte che assumeva “il principio cristiano-teologico” del primato della persona che cercava protezioni dalla società. La libertà come eguaglianza nella vita reale, e riferita ai differenziali di potere nella soddisfazione dei bisogni concreti, non veniva problematizzata e rimaneva sullo sfondo solo “l’eguaglianza di fronte al potere” o eguaglianza politica dell’homo politicus (p. 12). Per questo l’istanza dellavolpiana era quella di proiettarsi oltre la civiltà cristiano-borghese con il suo culto della persona originaria e astratta che ignora i rapporti di dipendenza scaturiti dalla convivenza nella società civile. Neanche Rousseau, in questa fase, era recuperabile perché la sua produzione teorica evidenziava “il dissidio delle due anime di Rousseau, la repubblicana o romana o civile e la cristiana-umanitaria” (p. 20) senza trovare uno sbocco ricostruttivo. Sulla base della nozione di persona-valore presociale, che assimilava natura e valore, era possibile edificare solo “un aggregato di monadi, non certo una società o comunità degna del nome”. In polemica contro le pure “laicizzazioni della charitas”, egli abbozzava una critica radicale delle dottrine etiche per rimarcare “la impotenza di ogni apriorismo o spiritualismo”[2]. Solo sulla base di Marx era pensabile, oltre la sola “democrazia libertaria”, una eguaglianza sociale perché “l’eguaglianza è essenzialmente rapporto, sinonimo di co-esistenza” (p. 21). Quello che il pensiero liberale trascende, nella sua esaltazione del libero e astratto attore, è il ruolo non voluto, non libero della divisione del lavoro che pone limiti, e vede il prevalere della “casualità o irrazionalità delle condizioni di vita” (p. 57). Solo una critica dell’ordine non razionale scaturito dalla cieca divisione del lavoro rende possibile la contestazione dell’homo oeconomicus con la sua inclinazione acquisitivo-possessiva e la prospettazione di una comunità reale.

Il fondamento concettuale della filosofia etico-politica dellavolpiana è già ben delineato e troverà sviluppi nell’inquadramento posteriore che verrà configurandosi come una prosecuzione della scoperta critica della rivalutazione dell’interesse in un’etica legata al sensibile, alla corporeità, alla finitezza. Sul piano teorico il suo principale libro politico (Rousseau e Marx) ebbe una grande risonanza nella cultura degli anni sessanta, non solo in Italia, ed esercitò una attenzione sui temi cruciali della filosofia politica, ancora oggi scandagliati da Rawls o da certe declinazioni della democrazia deliberativa[3]. Alcune problematiche politiche, al centro del saggio, si rivelano storicamente datate. Sul piano etico o gnoseologico invece rimane un nucleo teorico fecondo[4]. Galvano della Volpe non concedeva molto alla vulgata marxista. Malgrado il tono antidogmatico (se la prendeva anche con il Marx della Questione ebraica incapace di cogliere gli aspetti positivi dell’emancipazione politica), l’approdo della sua teoria politica non supera limiti e incertezze. Non solo per la comparsa di formule come quelle che rimarcano “la straordinaria democraticità del regime sovietico”, ma anche per la presenza di uno spinoso problema teorico, quello della sovranità, che minaccia tutto il programma dellavolpiano di una renovatio socialista del costituzionalismo liberale[5]. Dietro la proposta cruciale di una democrazia diretta “antirappresentativa”, c’era il rigetto della nozione di società civile. La sovranità, per della Volpe, dovrebbe avere come fondamento “la proletaria massa organica dei lavoratori” e non più la atomistica sfera della società civile. In vista di “una democrazia nuova, proletaria” occorreva, a suo dire, ingaggiare una diversa nozione di sovranità, “non più ridotta a una sovranità
popolare-nazionale (interclassista) borghese, ma realizzata in una sovranità popolare-proletaria”. Da una parte, egli polemizzava contro il fondamento classista del liberalismo di Locke e Kant, incapace di tracciare un garantismo universalistico effettivo e non più di copertura al ceppo proprietario. Dall’altra egli stesso, sul piano dei diritti politici, disegnava una sfera pubblica con diritti differenziati a seconda della condizione sociale[6]. Centrale in della Volpe era l’opposizione qualitativa tra liberalismo e democrazia, tra comunità e sovranità statuale, tra libertas major e libertas minor, in un’ottica che però prevedeva il recupero pieno del garantismo, del principio di legalità, sia pure nelle ambiguità visibili nel rapporto politico-rappresentativo. Rimarcata la distinzione tra liberalismo (problema dell’ordine politico e dell’impalcatura garantistica del potere costruito sulla base di una figura come quella del contratto che presuppone già il soggetto proprietario) e socialismo (problema dell’ordine sociale o coesistenza di soggetti eguali), della Volpe accanto alla “frattura storica” non negava che “il socialismo è da considerare, come non è dubbio, uno sviluppo del liberalismo”[7].

Il suo problema era quello di delineare “una sovranità popolare-proletaria (operaia)” e di assicurare le condizioni istituzionali e le formule giuridiche di un “centralismo democratico operaio”. Il garantismo liberale, che egli intendeva recuperare e trasvalutare nel nuovo ordinamento, non apparteneva all’ambito della rappresentanza individualistica (competizione secondo il principio di maggioranza) ma a quello delle garanzie individuali concernenti la persona nel suo rapporto con l’autorità. Le libertà recuperate erano più quelle della persona che non quelle politiche del cittadino. I termini dell’affresco erano una democrazia operaia e un individuo-persona protetto nella sua sfera soggettiva inviolabile con i limiti del potere che caratterizzano lo Stato di diritto. Il medium che mancava, oltre all’istanza della libertà come non-impedimento, era quello della rappresentanza. Eppure proprio il giovane Marx scoperto da della Volpe impostava in termini più pregnanti la questione della sovranità e coglieva il nesso tra atomismo della società civile e strutture politiche rappresentative. La positività dell’empirico era fatta valere nella Critica contro la veduta speculativa legata ad astoriche essenze. Il rimando alla fenomenologia storica, agli oggetti o istituti specifici, conduceva Marx, con il “suo metodo di deflazione delle sintesi generiche hegeliane”, verso l’istanza di “una sociologia dello Stato al posto della metafisica dello Stato”[8]. Tener fermo l’atomismo e la funzionalità degli istituti rappresentativi significa, in una calibrata strategia di negazione e costruzione, che il conflitto nella società civile, per imporre momenti di socializzazione e di oltrepassamento delle strutture proprietarie, necessita di rappresentazioni politiche diverse e che quindi non è sufficiente un autogoverno con il corollario della salvaguardia della dignità individuale. Il profilo politico-pluralistico del garantismo restava in della Volpe sullo sfondo, ma non rigettato, perché la sovranità della classe implicava soluzioni diverse da quelle imposte dal principio di maggioranza. Il punto scoperto relativo alla sussistenza e al ruolo delle forme politiche entro la prospettiva di una democrazia radicale ed egualitaria veniva risolto con una sintesi storica tra Locke e Rousseau, cioè tra le tecniche liberali della libertà civile e la eguaglianza della democrazia sostanziale.

Secondo della Volpe non occorreva in alcun modo “ipostatizzare eventi storici” come la dittatura del proletariato perché in occidente la questione del potere si poneva nei termini di una conquista del “consenso della maggioranza”[9]. Le accuse di formalismo rivolte a della Volpe intendevano colpire la sua lettura in Marx di una presenza, pur nei limiti di una enfatizzazione della prospettiva della rivoluzione sociale, dell’istanza di un recupero “della sovrastruttura giuridica borghese”, del diritto eguale e del “garantismo giuridico, costituzionale, di ogni persona-cittadino”[10]. Finché esiste uno Stato politico, con la separazione tra governanti e governati, pare imprescindibile il recupero dello “spirito lockeano e kantiano” come dottrina dei limiti del potere anche in una fase della società comunista. Nell’apertura così trasparente a istanze liberali, con il richiamo a Locke e al principio di legalità come insurrogabile, con il rimando inequivoco alla separazione dei poteri, colpiranno persino Bobbio che negli anni successivi si sorprese per certi riconoscimenti che andavano persino oltre le aspettative degli interlocutori liberali più esigenti[11]. Lo sforzo era di calibrare l’asse Rousseau-Marx (libertas major) con l’asse Locke-Kant (libertas minor, non nel senso di inferiore ma di sganciata dalla condivisione comunitaria delle differenze, dei bisogni). In tale orizzonte centrale diventava la nozione di società e con essa la funzione del lavoro come meccanismo di integrazione subordinato alle incertezze del mercato e agli imperativi della divisione del lavoro.

Con la mediazione del lavoro, scriveva della Volpe, “ogni uomo realizza le sue personali capacità, i suoi meriti, e si fa insomma persona e libero”. Nella sua ottica, merito e lavoro segnavano un “binomio assiologico” che evocava il diritto al lavoro garantito da parametri costituzionali esigibili. Entro una democrazia del merito, e perciò antilivellatrice, poteva essere fatta valere una fondamentale istanza metapolitica che (il linguaggio non è dissimile da quello odierno di M. Nussbaum) esigeva “il diritto di qualunque essere umano al riconoscimento delle sue personali capacità e possibilità”. Questo progetto, in grado di mediare capacità e differenze, merito e bisogno, lavoro e diritto, postulava il recupero della “capitale categoria etico-politica aristotelica” della giustizia distributiva, in grado di aderire alle diversità di condizione (non giustizia commutativa o dello scambio tra soggetti astrattamente parificati), cioè dell’eguaglianza come riconoscimento delle differenze quali situazioni di svantaggio da compensare con coperture giuridiche specifiche che tutelino il bisogno particolare oltre la forma astratta del diritto eguale[12]. Tutto questo quadro di eguaglianza nella differenza riconosciuta nel suo tratto empirico era nondimeno attrezzato per non colpire il merito, la diversità. Il corollario generale del progetto di un’eguaglianza moderna prevedeva per della Volpe il rigetto del diritto, a un certo momento dello sviluppo sociale, antieconomico di proprietà. Scorporare i diritti della persona come valore storico positivo dall’incrostazione proprietaria che conferisce differenti poteri al possesso era il punto cardine della questione delle garanzie giuridiche.

Trasferire il disegno del dominio di classe anche nell’architettura costituzionale comportava, in caso di confinamento del garantismo nel solo ambito civilistico e non esteso anche in quello giuspubblicistico, l’esclusione del conflitto politico come legittimo momento organizzativo delle preferenze individuali e collettive entro la forma statuale oltre-borghese. Il tassello mancante in della Volpe era quello di rendere compatibile l’istanza della socializzazione, della libertà comunista con il principio di maggioranza, con l’assetto pluralistico delle espressioni politiche della società civile. Il passaggio dalla società civile atomistica alla società omogenea avveniva senza mediazioni ed eterogenei soggetti del pluralismo. La polarità capitale-lavoro era riconoscibile entro la società civile moderna che prevedeva un conflitto tra classi mediato da diritti politici atomisticamente azionabili (suffragio universale). Il passaggio dal conteggio numerico delle espressioni di voto alla supremazia di una classe restava problematico. Anche per della Volpe la critica marxiana allo Stato costituzionale o “Stato dell’astrazione politica” conduce a una democrazia come “elemento reale” che svela “per quale impulso originario, coerente, profondo, il pensiero e la prassi del comunismo sviluppino la democrazia moderna” [13]. Nel piano di della Volpe, rimaneva un solo polo del contrasto sociale, e sfumavano le forme politiche dell’articolazione degli interessi e dei valori politici. Egli rimarcava il significato di “quel tipico istituto egualitario (o democratico-sociale) ch’è il suffragio universale”[14]. La questione è importante perché
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