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P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XX N°5 | gennaio 2018 | PAGINA C - 35 |
Gli stessi sindacati dell’università e della ricerca caddero in questa trappola, chiedendo non più il lavoro stabile ma regole di gestione del lavoro precario e per la “competizione per merito”. Questo atteggiamento fece venire meno la ragion d’essere dei sindacati che ovviamente devono difendere gli interessi dei lavoratori, non gestire la competizione tra loro. Oggi, è ormai evidente che quello dei “liberi professionisti della ricerca” era uno dei tanti sogni nati dalla convinzione che il “libero mercato” sarebbe stato la fine della storia e il paradiso in terra. Con il nuovo millennio, i precari dell’università e della ricerca hanno ricominciato a considerarsi tali e a desiderare il “posto fisso”, riconoscendo che solo questo avrebbe dato loro la serenità e il tempo per una vera attività scientifica, senza bisogno di seguire mode e contatti politici per elemosinare un contratto a termine. Ma il danno ormai era fatto: venuta a mancare la fiducia nei sindacati, svaniti i partiti di massa che portavano le istanze dei movimenti nelle istituzioni, i precari del XXI secolo hanno cercato di organizzarsi da soli in movimenti e associazioni ma queste strutture di base, spesso piccole, ma a volte anche grandi, senza una sponda politica non riescono a ottenere risultati e, a seguito delle sconfitte, scompaiono senza lasciare traccia dopo una breve vita, lasciando i precari ancora di più senza speranze. Vito Francesco Polcaro, scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica), e membro del Centro per l’astronomia e l’eredità culturale dell’Università di Ferrara === 2) Quello che segue è un articolo a mio avviso importantissimo. Personalmente ho proposto una definizione che mi sembra più corretta per questa "classe disagiata": INTELLETTUARIATO – si veda: http://www.agentefisico.info/ Il recente saggio di Carchedi parla delle stesse cose, anche se apparentemente non se ne è ancora accorto nessuno (nemmeno l'Autore) – si veda: --- Troppi giovani poveri inutilmente acculturati? No problem, la soluzione è la “decrescita culturale” Recensione al recente libro di Raffaele Alberto Ventura, “Teoria della classe disagiata”, uscito per Minimum fax. di Valeria Finocchiaro, 21/10/2017 Choosy, bamboccioni, sfigati: è così che negli ultimi anni diversi politici hanno variamente definito la generazione degli attuali trentenni; l’idea è che i giovani tardino deliberatamente a inserirsi nel mondo del lavoro, vivano a casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e costituiscano un peso per la società. Dopo anni di politiche all’insegna della precarizzazione del lavoro e di tagli del welfare, si scopre che quasi tutto ciò che negli anni della Guerra Fredda veniva considerato un diritto è oggi diventato un lusso socialdemocratico di cui sbarazzarsi, un feticcio religioso che il moderno illuminismo progressista contribuisce a distruggere per far posto alla nuova mistica neoliberale. Il primo idolo da abbattere, naturalmente, è lo stato sociale: come scriveva nel 2010, in piena crisi greca, Alberto Orioli sul Sole 24 Ore, “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. Anche la “cultura” è insostenibile, ci dice Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata, almeno per come l’abbiamo pensata all’epoca del boom. Per dimostrare questa tesi l’autore elabora la categoria di classe disagiata, una versione più colta e meno volgare degli epiteti di cui sopra. Il nocciolo del ragionamento è presto detto: non c’è abbastanza ricchezza per tutti, il welfare allargato del secondo dopoguerra non risulta più sostenibile ed è quindi necessario ripensare le forme della democrazia. In particolare, è l’istruzione di massa a essere messa sotto accusa: a detta dell’autore viviamo in un paese “iperistruito”, che sotto l’effetto ipnotico di una ideologia fallimentare chiamata keynesismo ha vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità. Ora però i nodi vengono al pettine, e il saggio di Ventura ci aiuta a fare i conti con il grande rimosso della classe media occidentale: il colonialismo? No, il diritto allo studio. In nome di questo diritto sono state sperperate ingenti risorse e a causa di esso un’intera generazione è oggi sul lastrico: si tratta appunto della “classe disagiata”, che a furia di inseguire l’ideale borghese della realizzazione intellettuale rischia l’estinzione nel breve futuro. Sorprendentemente, nella visione dell’autore, non è il precariato a costituire il maggior impedimento per i giovani a riprodursi, ma la loro terribile ostinazione a studiare troppo e sempre più a lungo. Con la conseguenza che essi sono “troppo ricchi per rinunciare alle loro aspirazioni e troppo poveri per realizzarle”: troppo ricchi, perché nel corso degli anni hanno potuto accumulare un capitale culturale che li spinge a coltivare certe velleità intellettuali, e troppo poveri, perché il loro stipendio (quando c’è) spesso non basta nemmeno per pagare l’affitto e, cosa ancor più grave, i risparmi dei genitori sono stati spesi per finanziarne gli studi. L’unica soluzione a questa impasse consiste evidentemente nella riduzione dei consumi culturali e, probabilmente, in una buona dose di umiltà: non possiamo essere tutti “creativi”, pittori o registi, accademici o musicisti, qualcuno deve pur sfornare il pane. Certamente, come l’autore mette in luce, esiste un problema legato alla “svalorizzazione dei titoli di studio” causato dalla loro proliferazione: master, tirocini di ogni tipo, stage ecc. contribuiscono da un lato a rendere estremamente macchinoso l’inserimento nel mondo del lavoro e, dall’altro, comportano la rapidissima obsolescenza dei titoli intermedi, con la conseguente svalutazione dei titoli e degli sforzi per ottenerli. Eppure il realismo dell’argomentazione non riesce a nascondere un tono decisamente ..segue ./.
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