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La VOCE ANNO XX N°5

gennaio 2018

PAGINA C        - 35


Questioni della Scienza
a cura di A. Martocchia
Per questo numero della rubrica segnalo due articoli:

1) L’angoscia del precario del XXI secolo (di Vito Francesco Polcaro)

2) Troppi giovani poveri inutilmente acculturati? No problem, la soluzione è la “decrescita culturale” (recensione di Valeria Finocchiaro al recente libro di Raffaele Alberto Ventura, “Teoria della classe disagiata”)


=== 1)


L’angoscia del precario del XXI secolo

Vito Francesco Polcaro, 6/7/2017

La perdita della speranza è la causa che spinge una percentuale elevatissima di giovani italiani in possesso di alte qualificazioni e titoli di studio ad accettare lavori ad un livello assai più basso di quello che potrebbero svolgere


Nel 2010, un dottorando di Palermo si suicidò gettandosi dal settimo piano dell’edificio della sua università, poco prima della discussione della tesi, perché aveva capito che, finito il dottorato, non ci sarebbe stato per lui un lavoro adatto alle competenze che aveva acquisito in tanti anni di studio.
All’inizio di questo anno, un giovane precario di Udine, un grafico trentenne a giudicare da quanto scrive, si suicida inviando una lettera aperta e denunciando il fatto che la società lo ha rifiutato e tradito.

Sono certamente gesti estremi, originati da una situazione lavorativa insostenibile o di mancanza di lavoro, situazioni che ormai accomunano la grande maggioranza dei giovani. Essi sono però frutto anche di problemi che vanno al di là di quelli economici. La lettera di addio del giovane di Udine dimostra infatti lo stato di frustrazione e di solitudine di una intera generazione, soprattutto nella sua parte più acculturata: quello che colpisce in questa lettera è la totale mancanza di speranze in un futuro migliore. E questo non è un caso isolato.

Infatti, anche quando, per fortuna, non arriva a far rifiutare la vita, la perdita della speranza è la causa che spinge una percentuale elevatissima di giovani italiani in possesso di alte qualificazioni e titoli di studio ad accettare lavori ad un livello assai più basso di quello che potrebbero svolgere. A volte, questa mancanza di speranze comincia già prima di finire gli studi, portando anche ad abbandonarli o a considerarli solo come un periodo di transizione da una giovinezza più o meno spensierata ad una vita di lavoro inevitabilmente dura e priva di soddisfazioni: ricordo uno studente di astrofisica che, quando gli feci notare che l’argomento della tesi che chiedeva non gli avrebbe dato alcuna possibilità di lavoro, mi rispose che non importava, tanto lo sapeva che in ogni caso sarebbe andato a lavorare in un call center (incidentalmente, gli diedi ugualmente un’altra tesi, con maggiori possibilità di sbocco professionale, ma non l’ho più rivisto dopo la laurea).

Il pensare a tutti questi ragazzi e ragazze che ormai non si aspettano nulla di buono dalla vita è una delle cose che mi rattrista di più. Quello però che mi turba maggiormente è il fatto che questa generazione sembra aver perso completamente la speranza di poter cambiare lo “stato delle cose esistenti” organizzandosi e facendo un fronte comune contro chi, per usare una frase assai frequente tra i giovani, vuole rubare loro il futuro.

Questo atteggiamento è comune nella larga maggioranza dei giovani, sia tra quelli che si arrendono – dal caso estremo dei suicidi a chi accetta un lavoro poco qualificato – sia tra quanti resistono per anni ed anni in situazioni di precariato cercando di trovare un lavoro all’altezza delle proprie aspettative, a volte anche riuscendovi ma sempre contando solo sulle proprie forze e sulle proprie capacità.

Limitandomi al settore accademico, l’unico del quale posso parlare per esperienza personale, non posso non notare le differenze tra questa generazione di precari e quelle precedenti che ho conosciuto in quasi mezzo secolo di lavoro nella ricerca.

Quando, tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, ero precario al CNR, ci organizzammo in un comitato, costringemmo i sindacati ad occuparsi del nostro problema, occupammo i nostri istituti per tre mesi consecutivi e non smettemmo finché l’ultimo tra noi non fu assunto a tempo indeterminato: sono molto fiero ancora oggi del fatto di avere avuto il posto non grazie all’interessamento di un “barone” ma con una vertenza sindacale! Non molto dissimile fu il comportamento dei precari tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, i quali, con una forte mobilitazione di massa (alla quale partecipai come delegato sindacale), portò a molte assunzioni negli Enti Pubblici di Ricerca, anche di chi era precario da più di un decennio, ed alla Legge 382/82 nell’università: un’ottima legge, che prevedeva anche concorsi a scadenza biennale per l’assunzione di nuovi docenti, unico mezzo per far fronte all’aumento delle iscrizioni universitarie a quei tempi in forte crescita grazie all’aumento della scolarizzazione nel decennio precedente, ma che non fu mai praticata.

Proprio con gli anni 80 però, con il diffondersi del pensiero unico neoliberista e il progressivo collasso delle forze politiche di massa che erano state il motore e lo strumento dell’organizzazione giovanile, l’atteggiamento cominciò a cambiare: si incominciò a criticare le “sanatorie” del precariato, a idolatrare il “riconoscimento del merito individuale” e la “selezione dei migliori” e a criticare la Legge 382/82 che avrebbe “saturato gli organici degli atenei”. Ovviamente, era vero che il rinnovo dei quadri accademici non doveva continuare con decenni di precariato seguiti da assunzioni in massa, che il merito individuale va riconosciuto, che un paio d’anni di prova sono necessari per capire (anche da parte dell’interessato) se si è veramente portati alla ricerca. Però, non erano assolutamente vere le conseguenze che si traevano da queste ovvietà: gli organici delle università e degli enti di ricerca non erano “saturi”, anzi già da allora erano largamente insufficienti, l’introduzione del Dottorato di Ricerca introduceva un periodo di prova più che sufficiente, i “meccanismi per il riconoscimento del merito” introdotti dalle varie riforme di università ed enti di ricerca non selezionano affatto i “migliori” ma i più furbi, capaci di muoversi, con gli aiuti giusti, attraverso regole spesso stravaganti e largamente discrezionali.

I precari degli anni 90 spesso non volevano neppure essere chiamati “precari” ma “liberi professionisti della ricerca” e si ritenevano capaci di poter continuare per tutta la vita passando da un progetto a un altro, conquistato con le sole proprie capacità e rifuggendo dal famigerato “posto fisso”, che nella ricerca avrebbe prodotto solo appiattimento su una “scienza ordinaria”, ripetitiva e incapace di innovazione. Chi non reggeva alla competizione, era giusto che andasse a fare un altro mestiere.


Gli stessi sindacati dell’università e della ricerca caddero in questa trappola, chiedendo non più il lavoro stabile ma regole di gestione del lavoro precario e per la “competizione per merito”. Questo atteggiamento fece venire meno la ragion d’essere dei sindacati che ovviamente devono difendere gli interessi dei lavoratori, non gestire la competizione tra loro.

Oggi, è ormai evidente che quello dei “liberi professionisti della ricerca” era uno dei tanti sogni nati dalla convinzione che il “libero mercato” sarebbe stato la fine della storia e il paradiso in terra. Con il nuovo millennio, i precari dell’università e della ricerca hanno ricominciato a considerarsi tali e a desiderare il “posto fisso”, riconoscendo che solo questo avrebbe dato loro la serenità e il tempo per una vera attività scientifica, senza bisogno di seguire mode e contatti politici per elemosinare un contratto a termine.

Ma il danno ormai era fatto: venuta a mancare la fiducia nei sindacati, svaniti i partiti di massa che portavano le istanze dei movimenti nelle istituzioni, i precari del XXI secolo hanno cercato di organizzarsi da soli in movimenti e associazioni ma queste strutture di base, spesso piccole, ma a volte anche grandi, senza una sponda politica non riescono a ottenere risultati e, a seguito delle sconfitte, scompaiono senza lasciare traccia dopo una breve vita, lasciando i precari ancora di più senza speranze.

Vito Francesco Polcaro, scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica), e membro del Centro per l’astronomia e l’eredità culturale dell’Università di Ferrara


=== 2)

Quello che segue è un articolo a mio avviso importantissimo. 
Personalmente ho proposto una definizione che mi sembra più corretta per questa "classe disagiata": INTELLETTUARIATO – si veda:
http://www.agentefisico.info/2014-05-22-10-37-56/29-fis/sci/8-intellettuariato
Il recente saggio di Carchedi parla delle stesse cose, anche se apparentemente non se ne è ancora accorto nessuno (nemmeno l'Autore) – si veda: 

---


Troppi giovani poveri inutilmente acculturati? No problem, la soluzione è la “decrescita culturale” 

Recensione al recente libro di Raffaele Alberto Ventura, “Teoria della classe disagiata”, uscito per Minimum fax. 

di Valeria Finocchiaro, 21/10/2017

Choosy, bamboccioni, sfigati: è così che negli ultimi anni diversi politici hanno variamente definito la generazione degli attuali trentenni; l’idea è che i giovani tardino deliberatamente a inserirsi nel mondo del lavoro, vivano a casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e costituiscano un peso per la società. Dopo anni di politiche all’insegna della precarizzazione del lavoro e di tagli del welfare, si scopre che quasi tutto ciò che negli anni della Guerra Fredda veniva considerato un diritto è oggi diventato un lusso socialdemocratico di cui sbarazzarsi, un feticcio religioso che il moderno illuminismo progressista contribuisce a distruggere per far posto alla nuova mistica neoliberale. Il primo idolo da abbattere, naturalmente, è lo stato sociale: come scriveva nel 2010, in piena crisi greca, Alberto Orioli sul Sole 24 Ore, “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. 

Anche la “cultura” è insostenibile, ci dice Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata, almeno per come l’abbiamo pensata all’epoca del boom. Per dimostrare questa tesi l’autore elabora la categoria di classe disagiata, una versione più colta e meno volgare degli epiteti di cui sopra. Il nocciolo del ragionamento è presto detto: non c’è abbastanza ricchezza per tutti, il welfare allargato del secondo dopoguerra non risulta più sostenibile ed è quindi necessario ripensare le forme della democrazia. In particolare, è l’istruzione di massa a essere messa sotto accusa: a detta dell’autore viviamo in un paese “iperistruito”, che sotto l’effetto ipnotico di una ideologia fallimentare chiamata keynesismo ha vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità. 

Ora però i nodi vengono al pettine, e il saggio di Ventura ci aiuta a fare i conti con il grande rimosso della classe media occidentale: il colonialismo? No, il diritto allo studio. In nome di questo diritto sono state sperperate ingenti risorse e a causa di esso un’intera generazione è oggi sul lastrico: si tratta appunto della “classe disagiata”, che a furia di inseguire l’ideale borghese della realizzazione intellettuale rischia l’estinzione nel breve futuro. Sorprendentemente, nella visione dell’autore, non è il precariato a costituire il maggior impedimento per i giovani a riprodursi, ma la loro terribile ostinazione a studiare troppo e sempre più a lungo. Con la conseguenza che essi sono “troppo ricchi per rinunciare alle loro aspirazioni e troppo poveri per realizzarle”: troppo ricchi, perché nel corso degli anni hanno potuto accumulare un capitale culturale che li spinge a coltivare certe velleità intellettuali, e troppo poveri, perché il loro stipendio (quando c’è) spesso non basta nemmeno per pagare l’affitto e, cosa ancor più grave, i risparmi dei genitori sono stati spesi per finanziarne gli studi. L’unica soluzione a questa impasse consiste evidentemente nella riduzione dei consumi culturali e, probabilmente, in una buona dose di umiltà: non possiamo essere tutti “creativi”, pittori o registi, accademici o musicisti, qualcuno deve pur sfornare il pane. 

Certamente, come l’autore mette in luce, esiste un problema legato alla “svalorizzazione dei titoli di studio” causato dalla loro proliferazione: master, tirocini di ogni tipo, stage ecc. contribuiscono da un lato a rendere estremamente macchinoso l’inserimento nel mondo del lavoro e, dall’altro, comportano la rapidissima obsolescenza dei titoli intermedi, con la conseguente svalutazione dei titoli e degli sforzi per ottenerli. Eppure il realismo dell’argomentazione non riesce a nascondere un tono decisamente

..segue ./.

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