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La VOCE ANNO XX N°5

gennaio 2018

PAGINA 4         - 24

Segue da Pag.23: L’ex legale canadese di Milosevic: "Mladic è un capro espiatorio per coprire i crimini della NATO"




Come ex legale di Milosevic, come giudica il lavoro del Tribunale ad hoc per i crimini commessi in ex Jugoslavia che, dopo la sentenza Mladic, si scioglierà tra pochi giorni?

C.B.: L’ICTY si è dimostrato essere esattamente quello che doveva essere, un tribunale fantoccio che ha utilizzato metodi fascisti di giustizia e che si è impegnato nel portare avanti un processo selettivo per attuare l'agenda della NATO di conquista dei Balcani. E questo come preludio all'aggressione contro la Russia che stiamo osservando in questi giorni. Quello che i media non scrivevano ieri nel racconto che hanno dato del verdetto Mladic è che la Nato ha utilizzato il tribunale come un mezzo di propaganda per fabbricare una storia assolutamente falsa sugli eventi, al fine di coprire i suoi crimini, per mantenere le ex repubbliche di Jugoslavia sotto il suo dominio e per giustificare quell'aggressione e l'occupazione. E’ un’onta per tutta la civiltà.


Alessandro Bianchi



Praljak condannato all’Aja, si avvelena in aula

EX JUGOSLAVIA. L’ex generale dei croati di Bosnia si uccide in diretta tv. Ordinò la distruzione del Ponte di Mostar

di Luka Bogdanic 
su Il Manifesto del 30.11.2017

Davvero una chiusura simbolica quella di ieri del Tribunale per l’ex-Jugoslavia, con il suicidio in diretta, alla lettura della sentenza, del generale Slobodan Praljak. L’uomo che fu comandante dello stato maggiore delle forze armate della Repubblica Croata dell’Herzeg-Bosna e rappresentate del ministero della difesa della Repubblica Croata presso tale Stato autoproclamato. Praljak è responsabile dell’abbattimento del vecchio, storico, ponte di Mostar, che non sopravvisse alle follie nazionaliste e alla guerra di rapina con cui è morta la Federazione jugoslava. Dopo aver pronunciando le parole «Slobodan Praljak non è criminale di guerra e col disprezzo rigetto la vostra condanna», ha bevuto del veleno in diretta, cercando forse in extremis di dare un senso alla vicenda della sua vita che la storia stessa ha smentito.

COSÌ IL 29 NOVEMBRE, è tornata a essere simbolica per tutta l’ex Jugoslavia socialista: un tempo era giorno della Repubblica; oggi il Tpi per l’ex-Jugoslavia ha terminato il suo ultimo processo, concludendo di fatto il suo lavoro, dopo 24 anni. L’onore di celebrarne la fine è toccato a sei generali croati della Bosnia Erzegovina alla sbarra: Jadranko Prlic, Bruno Stojic, Slobodan Praljak, Milivoj Petkovic, Valentin Coric e Berislav Pušic, tutti condannati in via definitiva. Le pene variano dai 10 ai 20 anni di reclusione di Prlic, all’epoca premier dell’autoproclamata Repubblica Croata dell’Herzeg-Bosna, 1991-1994. Dopo la recentissima condanna all’ergastolo del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic per i crimini commessi contro i musulmani di Bosnia, quelle dei sei generali responsabili dei crimini croati nella stessa regione, erano attese. Era chiaro che il Tribunale dell’Aja non poteva tacere su quelli dei croati. Apparentemente, l’unico rimasto sorpreso è stato l’establishment croato, cioè l’Hdz, il partito nazionalista al potere oggi e negli anni Novanta, quando i sei condannati eseguivano le direttive di Franjo Tudjman, il fondatore del partito che il Tribunale dell’Aja ha salvato e risparmiato. Con tanto di rammarico di Carla Del Ponte che, a conclusione del suo mandato di procuratore generale, dichiarò che avrebbe voluto processarlo.

IL TRIBUNALE infatti, non solo ha condannato i sei generali ma anche la politica croata verso la Bosnia-Erzegovina dei primi anni Novanta, qualificandola come Joint Criminal Enterprise (atto criminale associato). Fino a ieri sera, i media statali e gli intellettuali di regime in Croazia, cercavano di rassicurare che almeno quest’ultima parte dell’accusa sarebbe decaduta. Apparentemente, la condanna per l’élite politica croata è stata di tale sorpresa che quando la notizia è giunta in Parlamento, per poco l’opposizione e i rappresentanti del governo non sono venuti alle mani. Ora la condanna rende anche palese l’ipocrisia del partito al governo. Infatti, se la politica nazionalista di Hdz e del suo governo verso la Bosnia è stata condannata come criminale, è lo stesso Hdz ad aver consegnato i sei generali al Tribunale, anche se i suoi gerarchi avevano giurato «sull’onore della patria», che avrebbero «protetto i suoi eroi»; gli stessi gerarchi che siedono ancora in Parlamento.

È IL MACABRO epilogo di quella politica che Tudjman annunciò in campagna elettorale nel 1990, quando diceva di essere felice «di non avere una moglie né serba né ebrea». Una politica che poi è proseguita con il cambio della Costituzione, per cui i serbi da popolo co-costitutivo della Croazia divennero minoranza. La stessa ideologia venne poi implementata con i licenziamenti di comunisti e serbi. In quelli anni, dichiararsi jugoslavo era un delitto punibile anche con la morte. Ecco cosa furono i primi anni Novanta in Croazia, gli anni del nuovo regime «democratico» sostenuto dall’Europa, il cui logico proseguimento fu l’espansione e l’aggressione della Bosnia. I nazionalismi, sia croato che serbo, si specchiarono l’uno con l’altro, e la Bosnia fu la terra contesa da smembrare, come era accaduto con la Jugoslavia. Dopo 24 anni, con le sue condanne troppo lente, a volte cieche, con incredibili assoluzioni, o gravi incidenti di percorso come le morti poco chiare di eccellenti imputati come Milosevic, il Tribunale dell’Aja ha forse più contribuito a mantenere vivo il fuoco nazionalista nella regione piuttosto che a spegnerlo. Con il rischio di una tragicommedia annunciata. Va in scena nei Balcani ma riguarda l’Europa.


DICHIARAZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA DEI LAVORATORI DI CROAZIA IN OCCASIONE DELLA SENTENZA DEFINITIVA CONTRO I SEI ACCUSATI PER CRIMINI DI GUERRA IN BOSNIA ED ERZEGOVINA

Non c'è dubbio che il Tribunale internazionale per i crimini commessi sul territorio dell'ex Jugoslavia durante il suo lavoro ha emesso anche decisioni condizionate politicamente. Non c'è dubbio che questo Tribunale ha esercitato la giustizia, in relazione alle tre parti in causa nei crimini commessi, con il criterio dei "due pesi e due misure". È evidente che il Tribunale ha emesso alcune sentenze favorevoli alla parte croata ed è indiscutibile che molti dei crimini commessi non sono stati processati, il che significa che dopo le sentenze dei processi, durati per quasi un quarto di secolo, le vittime non sono state formalmente risarcite né puniti gli artefici.

In casi come questi non ci sono e non possono esserci parti soddisfatte e le loro lamentele sono naturali e comprensibili, ma l'esplosione di rabbia dei media e delle istituzioni della Croazia, iniziata il 29 novembre, dopo la lettura della condanna dei 6 croati bosniaco-erzegovesi incriminati, mentre uno di loro si è tolto la vita pubblicamente e teatralmente, esula da ogni comportamento normale e civile.

Non abbiamo il diritto né la competenza per mettere in discussione le decisioni del Tribunale ed ancora meno per replicare come sta facendo la presidente croata, ma abbiamo il diritto ed il dovere di indicare e condannare gli aspetti risultanti, e questa unità quasi plebiscitaria della politica croata, fino ai più alti incarichi di governo, che vorrebbe amnistiare i sei condannati per crimini di guerra e celebrare loro e le loro azioni. Contemporaneamente, la stessa retorica è utilizzata da quasi tutti i media croati, con poche eccezioni.

Tale clima ad altro non serve che ad aizzare la pubblica opinione in una atmosfera di linciaggio, con esplicite minacce alla vita di quelli che vogliono esaminare tutto l'insieme in modo critico – al che il Governo è rimasto indifferente e sordo.

Non vogliamo occuparci dei casi singolarmente, ma ci interessa il merito delle cose, e questo è che il Tribunale "un attimo prima" della sua fine ha confermato quello che sapevamo e sapevano sin dall'inizio quelli aperti al dialogo – cioè che gli stessi vertici di governo di allora, con a capo il partito HDZ [fondato da Tudjman, ndt], dettero inizio e furono profondamente coinvolti nei fatti che si svolgevano in Bosnia ed Erzegovina, e che questa politica dura tuttora. La reazione collerica del governo croato, dei media e della pubblica opinione sulla questione che riguarda il vicino Stato non giova alla reputazione della Croazia, viceversa evidenzia il suo autismo politico.

Questo, assieme tante altre cose ben note, rafforza la conclusione per cui nelle guerre civili ci sono tante verità quante sono le parti in causa.

A Zagabria, 2 dicembre 2017
La Presidenza del SRP di Croazia




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La campagna Abiti Puliti svela le nuove schiavitù

su segnalazione di P. Cecchi)

Un nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign, Europe’s Sweatshops, documenta i salari da fame endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Tra i clienti di queste fabbriche ci sono marchi globali come Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda.
Per questi marchi i Paesi dell’Est e Sud-Est Europa rappresentano paradisi per i bassi salari. Molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo con questo concetto “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, tra cui straordinari forzati, e si trovano in una situazione di indebitamento significativo.
Queste fabbriche di sfruttamento offrono lavoratori economici, anche se qualificati e professionali. Troppo spesso i salari mensili della maggior parte della forza lavoro femminile raggiungono appena la soglia del salario minimo legale, che varia dagli 89 euro in Ucraina ai 374 euro in Slovacchia. Ma il salario dignitoso, quello che permetterebbe a una famiglia di provvedere ai bisogni primari, dovrebbe essere quattro o cinque volte superiore e in Ucraina, ad esempio, questo vorrebbe dire guadagnare almeno 438 euro al mese.
I salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili. “A volte semplicemente non abbiamo niente da mangiare”, ha raccontato una lavoratrice ucraina. “I nostri salari bastano appena per pagare le bollette elettriche, dell’acqua e dei riscaldamenti” ha detto un’altra donna ungherese.
Le interviste a 110 lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo.
Molti degli intervistati hanno raccontato di condizioni di lavoro pericolose come l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento.
Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato, perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è sempre la stessa: “Quella è la porta”.
“Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi” dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign. “In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzioni, le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a per dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrutture e servizi. E nelle zone franche sono pure esentate dal pagamento delle utenze mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginoso aumento” continua Deborah Lucchetti.
Le fabbriche citate nel rapporto producono tutte per importanti marchi globali: tra questi troviamo Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda. La Campagna Abiti Puliti chiede ai marchi coinvolti di adeguare i salari corrisposti al livello dignitoso e di lavorare insieme ai loro fornitori per eliminare le condizioni di lavoro disumane e illegali documentate in questo rapporto.

Scarica il rapporto per la SERBIA:





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