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La gloriosa Bandiera

La VOCE ANNO XX N°2

ottobre 2017

PAGINA 1         - 13

LA COREA DEL NORD HA MESSO IN GINOCCHIO GLI STATI UNITI

di Alessandro Orsini
Pubblicato il 15 settembre 2017 alle 23:04 in Il commento
La Corea del Nord ha messo in ginocchio gli Stati Uniti ed è incredibile come i media italiani si rifiutino di rappresentare i fatti correttamente. La realtà, in estrema sintesi, è che il paese più ricco e potente mai apparso sulla faccia della terra è stato messo in ginocchio da uno dei paesi più poveri, deboli e isolati del mondo.
A causa di una serie di incredibili circostanze internazionali, tutte favorevoli a Kim Jong-un, gli Stati Uniti non possono fare altro che stare a guardare la Corea del Nord mentre sviluppa esultante il suo programma nucleare.
Che gli Stati Uniti siano paralizzati è reso evidente dal comportamento di Trump. Quando la Casa Bianca ritiene assolutamente prioritario abbattere un nemico, scavalca l’Onu e passa all’attacco frontale. Accadde con Saddam Hussein. Ricordiamo che l’invasione dell’Iraq del 2003 avvenne senza l’autorizzazione dell’Onu. Ben diverso è oggi il comportamento di coloro che guidano la Casa Bianca. A ogni nuovo test missilistico o nucleare, Trump fa due “mosse”, sempre le stesse, nessuna delle quali contempla l’avvio di un’azione militare. La prima mossa è quella di precipitarsi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere, con voce supplice, di inasprire le sanzioni. È evidente che Trump chiede l’intervento dell’Onu perché non può difendersi da solo. Quando un uomo forte chiede aiuto agli altri è perché si sente debolissimo. La seconda mossa di Trump è quella di rivolgersi, con voce piangente, a Russia e Cina per chiedere loro di fare qualcosa. È evidente che Trump chiede aiuto a Putin e Xi Jinping perché non può aiutarsi da solo.
Le ragioni per cui Trump non può attaccare la Corea del Nord sono quattro.
La prima è che la Corea del Nord ha una delle artiglierie più grandi del mondo. Con il minimo sforzo, sarebbe in grado di devastare Seul, anche mediante il lancio di bombe chimiche. La seconda ragione è che dispone di circa 60 testate nucleari. In caso di invasione americana, ne lancerebbe almeno una contro il Giappone o contro la base Usa a Guam. La terza ragione è che Cina e Russia sono molto più amiche di Kim Jong-un che di Trump per cui non sarebbero disposte a sparare contro il dittatore nordcoreano e si guardano bene dal prendere misure concrete che possano portare alla sua caduta. Ogni tanto accontentano Trump, introducendo qualche nuova sanzione, ma poi si oppongono all’unica sanzione davvero efficace che sarebbe l’embargo totale del petrolio. La quarta ragione è che la Corea del Nord non è una minaccia così grave per gli Usa o, comunque, non è una minaccia così grande da giustificare una guerra nucleare con milioni di morti. Gli americani sanno che il dittatore nordcoreano non attaccherebbe mai per primo e sanno anche che il suo programma nucleare ha una natura puramente difensiva. Il ragionamento dell’americano medio è semplice e si riassume come segue: “Se noi non attacchiamo Kim Jong-un, lui non ci attaccherà”.
Trump non attacca perché non può attaccare. Non è questione di volontà individuale; è questione di forze oggettive, che sono tutte favorevoli a Kim Jong-un.
Grazie di leggere Sicurezza Internazionale.
di Alessandro Orsini

Pacifico orientale: incidenti provocati e provocazioni Usa non incidentali

di Fabrizio Poggi

C’è solo da sperare che gli ufficiali yankee addetti alle armi di bordo della US Navy siano più accorti dei loro colleghi responsabili di rotta e tengano gli occhi più aperti delle vedette alle ali di bordo. In caso contrario, il rischio che “semplici” esercitazioni si trasformino in qualcosa di molto grave si fa davvero reale, soprattutto in certe zone calde dei mari orientali.

La collisione di ieri mattina, nello stretto di Malacca (che poi, si tratta comunque di alcune decine di miglia, anche nel punto più stretto) del cacciatorpediniere lanciamissili “John McCain” con la petroliera “Alnic MC” è il secondo episodio nel giro di poco più di un mese e il quarto dall’inizio dell’anno, che vede coinvolte unità militari USA nella regione. A metà giugno, il caccia “Fitzgerald” si era scontrato nel mar del Giappone con un portacontainer filippino e sette marinai statunitensi erano morti: la commissione d’inchiesta aveva giudicato “inadeguata la squadra di comando” del caccia ed esautorato gli ufficiali superiori. A maggio, l’incrociatore lanciamissili “Lake Champlain” aveva fatto collisione con un peschereccio sudcoreano al largo della penisola coreana e, in gennaio, l’incrociatore lanciamissili “Antietam” aveva sversato oltre mille galloni di olio bella baia di Tokyo.

Sia il “McCain” che il “Fitzgerald”, unità della 7° flotta del Pacifico, sono di stanza nella base di Yokosuka, una cinquantina di km a sudovest di Tokyo. Il “McCain” – classe “Arleigh Burke”, 6.600 tonnellate di stazza, due sistemi lanciamissili “Aegis”, artiglierie e armamento antinave – seriamente danneggiato (cinque marinai sono rimasti feriti nell’impatto e dieci risultano dispersi) è arrivato ieri pomeriggio alla base di Changi a Singapore. Una decina di giorni fa, il Ministero degli esteri cinese aveva inviato una nota di protesta a Washington contro la violazione del diritto internazionale e della sovranità del paese, dopo che proprio il “McCain” aveva incrociato in prossimità delle isole Nansha (Spratly), nel mar Cinese Meridionale, considerate da Pechino territorio cinese, al pari delle isole Xīshā (Paracel), nel cui specchio di mare era transitato qualche giorno prima il caccia “Stethem”.

Il capo delle operazioni navali USA, ammiraglio John Richardson, che ieri aveva parlato di una “tendenza” (il primo passo verso una deviazione, avrebbe detto Lenin…) alle collisioni e aveva sospeso tutte le operazioni delle unità americane in tutto il mondo, ha oggi aggiustato il tiro (delle parole) e ha parlato di un possibile attacco cibernetico russo (e chi altri?) ai sistemi di bordo del “McCain”, che avrebbe provocato l’incidente. Sentito dal canale del Ministero della difesa russo tvzvezda.ru, l’osservatore Dmitrij Litovkin ha parlato senza mezzi termini di “manifesta incompetenza degli ufficiali di marina USA”. Gli incidenti degli ultimi due mesi, ha detto Litovkin “si sono verificati a causa di collisioni con navi mercantili. Ciò testimonia del fatto che i militari americani o ignorano coscientemente le norme di sicurezza internazionali in mare, oppure pensano di avere ogni diritto e tutti debbano fargli strada: la qual cosa, in mare, di norma non funziona”.

La sospensione delle operazioni navali annunciata da Richardson sembra tuttavia riguardare solo le operazioni in alto mare: non risulta che siano state interrotte le esercitazioni “Ulchi-Freedom Guardian” (UFG), iniziate ieri in Corea del Sud (dal 1976, si ripetono ogni anno, in agosto e settembre) con la partecipazione di 17.500 marines USA, reparti sudcoreani, britannici, australiani, canadesi, colombiani, danesi, olandesi e neozelandesi, per un totale di oltre 50.000 soldati.

“L’arroganza della potenza”, titolava ieri Die Junge Welt, il quotidiano di orientamento marxista della ex DDR, a proposito delle manovre UFG, che simulano apertamente una invasione della Corea del Nord. Da anni si ripetono le esercitazioni USA-sudcoreane in Corea del Sud, scrive Rainer Werning: le maggiori, insieme alle UFG, sono le “Foal Eagle” e le “Key Resolve” tra febbraio e aprile. Oltre 200.000 soldati partecipano alla simulazione di un “incidente” con la Corea del Nord, mentre le “Key Resolve” servono come esercitazione del US Pacific Command alle Hawaii. Mentre Washington e Seoul “giustificano” le manovre con una presunta minaccia del nord, Pyongyang parla di aperte provocazioni e in Corea del Sud sono sempre più numerosi coloro che le considerano anacronistiche, perché interferiscono con il dialogo inter-coreano. In sostanza, si tratta di una gigantesca dimostrazione di “arroganza della potenza”: un’espressione usata dal senatore William Fulbright durante la guerra del Vietnam, nota Werning, che ricorda anche come la guerra di Corea avesse causato oltre quattro milioni di morti, con il capo del comando aereo strategico USA, Curtis LeMay, che dichiarava trattarsi del 20% della popolazione nord-coreana. Con 635.000 tonnellate di bombe esplosive e incendiarie – tra cui oltre 32.000 tonnellate di napalm, usato per la prima volta – le città della Corea del Nord furono devastate più di quelle tedesche e giapponesi durante la seconda guerra mondiale.

Le esercitazioni congiunte UFG, scriveva ieri la nordcoreana KCNA, “con un coinvolgimento militare statunitense molto superiore a quello dello scorso anno”, hanno gettato la penisola coreana in una fase critica. “Ancora più grave, è che gli alti comandi USA, i comandanti delle forze USA nel Pacifico e delle Forze Strategiche, abbiano visitato la Corea del Sud alla vigilia delle manovre”, scriveva la KCNA, ricordando che, per esse, Pyongyang ha promesso una “punizione spietata” su USA e Corea del Sud.

Si è sentito in dovere di spendere qualche parola di circostanza il presidente sudcoreano Mun Zhe Ying, forse spaventato dalla reazione nordcoreana: “si tratta di manovre annuali a carattere difensivo” ha farfugliato, a fronte di 50.000 soldati che simulano l’invasione della Corea del Nord, “e noi non tendiamo affatto ad alimentare la tensione”. Seoul, ha detto Mun, “in stretta alleanza con gli Stati Uniti, collaborerà con la comunità internazionale per garantire che la situazione attuale non evolva in una guerra”, aggiungendo che “le porte del dialogo sono sempre aperte” e che – da copione – è la RDPC a dover “cessare le provocazioni”.

Guarda caso, proprio in questi giorni, Seoul ha acconsentito all’installazione di ulteriori quattro piattaforme di lancio del sistema THAAD, col pretesto, ovviamente, della minaccia dei missili nordcoreani.

L’organo del Partito del Lavoro, Rodong Simnun, scrive che la decisione sudcoreana costituisce “un atto imperdonabile contro la nazione, volto ad accettare incondizionatamente la richiesta del suo padrone USA, anche col sacrificio del destino e degli interessi del popolo sudcoreano”. Il Ministero della difesa di Seoul, scrive la cinese Xinhua, la scorsa settimana ha addirittura deciso di accelerare il dispiegamento del sistema THAAD e ha condotto una prova di impatto ambientale, su scala ridotta, per tentare di rigettare le proteste dei gruppi anti-THAAD sudcoreani circa la nocività del sistema sull’ambiente.

“A Delfi gli oracoli tacciono e la caligine che avvolge il futuro preme sul genere umano”, sospirava Giovenale.

Corea del Nord o Usa: qual è il vero pericolo?

15.09.2017 - Angelo Baracca

(Foto di Ralf Schlesener per ICAN)
Sta divenendo sempre più chiaro che la rapidissima – fulminea per i tempi della storia – emergenza della decima potenza nucleare, la Corea del Nord (undicesima se si considera che il Sudafrica smantellò il proprio arsenale nei primi anni ’89), non è un evento temporaneo, ma stravolge il quadro geopolitico mondiale, e sta inducendo a rivedere i piani strategici. È il nucleare, bellezza!

Non l’avevano certo previsto gli Usa – la cui presunzione è spesso causa dei loro stessi problemi – quando sprecarono l’occasione 15 o 20 anni fa di dissuadere Pyongyang dall’imboccare la strada dello sviluppo delle armi nucleari. Essi hanno la piena responsabilità di questa situazione: hanno voglia di sbraitare e sbracciarsi, ormai “il diavolo è uscito dalla bottiglia” e non può esservi ricacciato come il genio della lampada di Aladino! La bomba nucleare non è mai uno scherzo di cattivo gusto, ma una minaccia gravissima per tutto il globo, e va presa con la massima serietà fin dal primo momento.

..segue ./.

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