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La VOCE ANNO XX N°4

dicembre 2017

PAGINA d         - 28

Segue da Pag.27: Dopo Balfour: cento anni di storia e le strade non intraprese

Najwa al-Qattan: leggere la storia attraverso le lenti della realtà

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 fu la conseguenza di una serie di sviluppi storici iniziati nel XIX° secolo. Benché l’Olocausto abbia giocato un ruolo nella nascita di Israele, esso fu più simile a un’ostetrica che a un genitore. Ciononostante c’è la percezione, sia nell’Occidente che tra i palestinesi, che i due avvenimenti siano legati da un rapporto causale. Questa percezione non è semplicemente dovuta a un errore logico secondo cui post hoc ergo proctor hoc, ovvero B ha seguito A, quindi A ha causato B. In realtà sono proprio i sei corti anni che separano i due eventi che dovrebbero farci riflettere. Qui io contesto una relazione causale diretta tra i due avvenimenti, pur suggerendo anche le ragioni per cui nell’immaginazione popolare sono associati. Concludo con le lezioni che possono essere tratte da una storia più critica.

Quando David Ben Gurion annunciò la nascita di Israele nel maggio 1948, stava a malapena evocando uno Stato puramente immaginario. Semmai stava fissando l’obiettivo di 50 anni di tentativi sionisti. Israele era la conseguenza di sviluppi storici sia a lungo che a breve termine: l’antisemitismo razziale o moderno in Europa nel XIX° secolo; l’emergere del movimento sionista sia come una risposta all’antisemitismo moderno che ai movimenti nazionalisti in Russia e in Europa occidentale; il successo del primo sionismo nel tenere insieme il socialismo con il nazionalismo per colonizzare “una terra senza popolo” con “un popolo senza terra”; il Mandato britannico per la Palestina sotto il cui contesto protettivo – come sancito nella dichiarazione Balfour – ondate successive di immigrati ebrei europei costruirono istituzioni sociali, economiche, politiche e militari pre-statali.

Tra i circa 600.000 ebrei europei che erano immigrati in Palestina fino al 1948, i sopravvissuti [all’Olocausto] erano 120.000. La popolazione di Israele crebbe rapidamente nei primissimi anni della sua vita in quanto arrivarono nuovi immigrati. Nuove ondate di sopravvissuti all’Olocausto ammontarono a 300.000, ma c’erano anche oltre 475.000 ebrei del Medio Oriente e di altre provenienze. Considerando l’idea sionista che lo Stato ebraico dovesse offrire un rifugio dall’antisemitismo europeo e una patria per il popolo ebraico, questo era un colpo morale e politico per il sionismo. L’idea era che se l’avessero costruita, sarebbero arrivati, ma milioni [di ebrei] non lo fecero, anche dopo la catastrofe provocata dall’uomo dell’Olocausto, che sterminò sei milioni di ebrei.

Non si tratta di negare un rapporto storico tra i due fatti. Il primo collegamento tra l’Olocausto e la creazione dello Stato di Israele riguarda i tempi. Benché i fondatori dello Stato sionista dai primi decenni del XX° secolo fossero concordi riguardo all’obiettivo finale di costituire uno Stato ebraico in Palestina, dissentivano sul momento ideale (così come sull’estensione del suo territorio). In questo senso l’Olocausto sicuramente portò i dirigenti sionisti a sottolineare l’urgenza dello Stato, come durante il programma Biltmore [dichiarazione da parte di Ben Gurion durante la conferenza all’hotel Biltmore di New York sulla necessità di costituire lo Stato ebraico, ndt.] nel 1942, così come fece l’annuncio britannico dei piani di disimpegno dalla Palestina nel 1947. Tuttavia ciò non significa che uno fosse la causa dell’altro; i progetti e le attività relativi alla costituzione dello Stato all’epoca erano in fase avanzata.

Il secondo collegamento è una questione di propaganda politica: il legame tra l’Olocausto ed Israele è stato spesso utilizzato per denunciare le critiche di Israele come antisemitismo e per eliminare dalla narrazione la mancanza di uno Stato e la diaspora del popolo palestinese. Due anni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a fare la falsa affermazione che furono i palestinesi che suggerirono l’idea della soluzione finale a Hitler.

Sotto occupazione o sparsi nella diaspora provocata da Israele, a volte i palestinesi immaginano che se l’Olocausto non fosse mai avvenuto non ci sarebbe neanche stato Israele. Piuttosto che reimmaginarci il passato, faremmo meglio a imparare da esso in modo da costruire un futuro pacifico e umano. In primo luogo, il segreto per costruire uno Stato palestinese (indipendentemente dalla sua forma) sono la densità e il benessere del suo popolo, delle sue istituzioni e della sua società civile, così come la determinazione della sua dirigenza politica e della società civile a sfidare l’occupazione e la negazione dei diritti palestinesi da parte di Israele. In secondo luogo, benché l’Olocausto non abbia provocato direttamente la nascita dello Stato di Israele, dovremmo desiderare che non ci fosse mai stato per l’unica ragione che conta: quella morale.

Mouin Rabbani: le ripercussioni della pace separata di Sadat

Sembra che il popolo palestinese abbia un rapporto difficile con gli anni che finiscono con il numero sette. Il primo congresso sionista si tenne nella città svizzera di Basilea nel 1897; il 1917 vide Arthut Balfour emanare la vergognosa dichiarazione che impegnava la Gran Bretagna a trasformare la Palestina in un focolare nazionale ebraico; la commissione Peel, che raccomandava che Londra adottasse la spartizione come politica ufficiale, pubblicò il suo rapporto nel 1937; la risoluzione 181 dell’assemblea generale dell’ONU che raccomandava la spartizione della Palestina venne adottata il 29 novembre 1947; il risultante staterello di Israele occupò ciò che restava della Palestina ed altri territori arabi nel 1967. Mezzo secolo dopo, nel 2017, sembra che vi si sia installato in modo più o meno permantente. L’importante eccezione a questa costante di sconfitte e tragedie è il 1987, l’anno in cui l’Intifada, la rivolta popolare nei Territori Palestinesi Occupati, scoppiò per dare ancora una volta ai palestinesi di ogni luogo la speranza di una liberazione nazionale.

Il 1977, l’anno in cui il leader egiziano Anwar Sadat lanciò la sua iniziativa per fare una pace separata con Israele, è spesso assente da questo elenco. L’auto-proclamato “pellegrinaggio” di Sadat verso l’abbraccio di Menachem Begin è normalmente presentato come l’inizio benaugurante di un processo di pace arabo-israeliano che in seguito è fallito. Non c’è bisogno del senno di poi per capire che non era, e non avrebbe mai potuto essere, niente del genere.

Sadat dedicò molti degli anni ’70, e in particolare quelli successivi alla guerra dell’ottobre 1973 [la guerra dello Yom Kippur, ndt.], a riconfigurare l’Egitto. Precedentemente centro di gravità del mondo arabo, che cercò e ottenne un’importanza globale, fu sotto la dirigenza di Sadat che l’Egitto venne gradualmente ridotto a Stato “cliente” di USA e Arabia Saudita. Le riforme socioeconomiche che ne derivarono – la politica dell’infitah [apertura neoliberista, ndt.] – per pagare il prezzo di ammissione aprirono le porte dell’Egitto ad ogni capitalista corrotto e ad ogni disponibilità clientelare. All’inizio del 1977 tali cambiamenti produssero anche un’esplosione di rivolta popolare, senza precedenti dal colpo di Stato del 1952, che per poco non portò alla fine del potere di Sadat. Il suo volo a Tel Aviv alla fine di quell’anno era un risultato diretto di quegli sviluppi. Eppure l’aria di inevitabilità di cui la sua iniziativa venne da allora rivestita – presentata come una conseguenza logica e necessaria del disimpegno [israeliano] dal Sinai nel 1974-75 in seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 – equivale a leggere la storia a posteriori. Per una buona ragione prese assolutamente di sorpresa allo stesso modo amici e nemici.

In un sol colpo lo stravagante e sempre più imprevedibile leader egiziano eliminò dalle possibilità l’opzione militare araba contro Israele. Così facendo privò anche l’OLP e gli Stati arabi di una credibile opzione diplomatica.

Le immediate conseguenze furono la devastante invasione del Libano nel 1982 e l’espulsione del movimento nazionale palestinese dal Libano. Un decennio dopo, gli accordi di Oslo del 1993 non furono altro che un’elaborazione del piano di autonomia inserito nel trattato di pace tra israeliani ed egiziani del 1979. Che Israele non abbia ancora dato il nome di Anwar Sadat a una sua colonia è uno dei grandi misteri della regione.

Se alla fine degli anni ’70 l’Egitto – come quasi fece – avesse resistito alla tentazione di una pace separata con Israele, il Medio Oriente oggi sarebbe un posto molto diverso e quasi sicuramente molto migliore. I palestinesi e gli Stati arabi avrebbero conservato un’opzione diplomatica credibile e sarebbero stati nelle condizioni di esercitare significative pressioni militari se Israele avesse rifiutato di fare altrettanto.

Jaber Suleiman: reimparare la lezione della prima Intifada

La prima Intifada del 1987 fu un brillante modello di lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. Impegnò tutti gli strati della popolazione palestinese e fu caratterizzata da unità, organizzazione e creatività. Rivitalizzò con successo anche la causa palestinese a livello internazionale dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) venne espulsa da Beirut nel 1982, perdendo la propria base.

Da allora ogni volta che i palestinesi si ribellano contro l’occupazione israeliana ci chiediamo: ci sarà una nuova Intifada – una terza Intifada, dato che l’Intifada degli anni 2000 fu la seconda? Qualche analista usa sbrigativamente il termine “intifada” per riferirsi a qualunque promettente azione popolare, come il movimento dei giovani nel 2015 e, più recentemente, l’”ondata di rabbia” di Gerusalemme, che continua in modo intermittente nel 2017. Ciò sottolinea la posizione centrale della prima Intifada, che durò tre anni. Infatti è comparabile solo con la grande rivolta palestinese del 1936-39. Sia l’Intifada che la rivolta andarono incontro allo stesso tragico destino, benché nel contesto di circostanze storiche diverse.

La dirigenza palestinese degli anni ’30 rispose all’appello dei leader arabi di fermare la rivolta per “dare ascolto alle buone intenzioni del nostro alleato britannico”, che si era impegnato a rispettare le richieste arabe. Nel 1988, durante la 19° sessione del Consiglio Nazionale, l’OLP decise di capitalizzare politicamente la prima Intifada per ottenere libertà e indipendenza. Credeva di appropriarsi della lotta e che l’Intifada avesse fornito la spinta necessaria per mettere in atto il programma politico provvisorio che aveva adottato nel 1974, che comprendeva la formazione di un’entità palestinese su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il risultato fu uno Stato abortito come conseguenza degli accordi di Oslo.

Dato che le circostanze della rivolta del 1936 non portarono alla realizzazione del diritto palestinese all’auto-determinazione, perché la prima Intifada non fu in grado di avvalersi di questa ricca esperienza per evitare il suo tragico destino? Anzi, la prima Intifada soffrì lo stesso destino perché fu coinvolta troppo frettolosamente negli accordi di Oslo, e il popolo palestinese continua a raccoglierne le amare conseguenze. Ciò include la divisione, la frammentazione e la debolezza del suo movimento nazionale dopo che negli anni ’70 aveva guadagnato un posto di rilievo tra i movimenti di liberazione nazionale mondiali.

Questa domanda è diventata ancora più pressante nel centenario della dichiarazione Balfour, in quanto lo sventurato processo di pace di Oslo è arrivato alla fine dopo più di due decenni di futili negoziati. I fatti sul terreno determinati dalle colonie israeliane – e il rifiuto israeliano di ritirarsi dalla terra occupata nel 1967 – hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Oggi è urgente chiedersi come le lezioni della prima Intifada ed i suoi risultati possano essere messi in pratica per una giusta soluzione del conflitto arabo-israeliano.

  • La storia svela l’importanza per la lotta nazionale palestinese di avere una chiara visione strategica e di essere sicuri che le mosse tattiche si inseriscano in quelle strategiche, e viceversa, durante tutte le fasi della lotta e alla luce dei cambiamenti sul terreno e delle alleanze globali. Ciò garantisce che, qualunque sia la fase della lotta, l’opportunismo politico non abbia la priorità sugli obiettivi finali.

  • È fondamentale sostenere le basi giuridiche del conflitto, fondate sui principi di giustizia contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, che sostituisce le leggi internazionali in base all’articolo 1 della Carta. Ciò garantisce che le basi legali dei diritti dei palestinesi non vengano manipolate e che quei diritti rimangano il punto di riferimento per ogni negoziato. Non è stato così nel caso di Oslo.

  • La dirigenza palestinese – attuale o futura – dovrebbe ispirarsi allo spirito combattivo che il popolo ha dimostrato durante un secolo di resistenza al progetto sionista. La resistenza dovrebbe imparare da queste esperienze storiche per rafforzare la propria fiducia nel potenziale rivoluzionario del popolo palestinese, ed evitare il meschino e miope sfruttamento politico di consistenti risultati nella lotta che leda i diritti nazionali dei palestinesi.

Notes:

  1. Al-Shabaka ringrazia gli sforzi dei sostenitori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile di eventuali cambiamenti del significato.

  2. Il governo britannico adottò il Libro Bianco nel 1939, e lo applicò fino alla fine del suo mandato nel 1948. Il “Libro Bianco” escluse la spartizione e affermò che il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto essere all’interno di una Palestina indipendente con limiti all’immigrazione [degli ebrei, ndt.].

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, sulla diplomazia e sul giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena a Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e all’ “Economist”. Oltre ad editoriali su “The Indipendent”, le collaborazioni di Zena includono El País, i servizi internazionali di PRI [Public Radio International, rete radiofonica indipendente con sede negli USA, ndt.], i servizi esteri della BBC e la BCC in arabo. A Zena è stata assegnata una borsa di studio Kennedy per studiare all’università di Harvard, completando il suo master in studi sul Medio oriente. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia moderna, memorie e produzioni narrative, prassi territoriali in Medio oriente.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è sociologo e scrittore indipendente palestinese e ha pubblicato vari libri e numerosi articoli sulla società palestinese, sul conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente. Hilal ha ottenuto, e tuttora ricopre, il ruolo di ricercatore esperto in una serie di istituti di ricerca palestinesi. Le sue recenti pubblicazioni includono lavori sulla povertà, sui partiti politici palestinesi e sul sistema politico dopo Oslo. Ha pubblicato Where Now for Palestine: The Demise of the Two-State Solution [Dove va ora la Palestina: il fallimento della soluzione dei due Stati] (Z Books, 2007), e con Ilan Pappe ha pubblicato Across the Wall [“Attraverso il muro”] (I.B. Tauris, 2010).

Il commentatore politico di Al-Shabaka Rashid Khalidi è titolare della cattedra Edward Said di Studi Arabi al dipartimento di storia della Columbia University. È stato presidente dell’Associazione degli Studi sul Medio Oriente, consulente della delegazione palestinese per i negoziati di pace arabo-israeliani del 1991-93 ed è direttore del Journal of Palestine Studies. Khalidi è autore di Brokers of Deceit: How the U.S. has Undermined Peace in the Middle East (2013); Sowing Crisis: American Dominance and the Cold War in the Middle East (2009); The Iron Cage: The Story of the Palestinian Struggle for Statehood (2006); Resurrecting Empire: Western Footprints and America’s Perilous Path in the Middle East (2004); Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997); Under Siege: PLO Decision-making during the 1982 War (1986); e British Policy towards Syria and Palestine, 1906-1914 (1980). Ha scritto oltre novanta articoli su aspetti della storia del Medio Oriente.

La commentatrice politica di Al-Shabaka Najwa al-Qattan è professoressa associata di storia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. Si è laureata all’American University di Beirut, alla Georgetown e ad Harvard. Ha scritto sulla corte ottomana musulmana, su ebrei e cristiani nell’impero ottomano e sulla Grande Guerra.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato in questioni palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano. È ricercatore all’Istituto di Studi Palestinesi ed è un redattore di Middle East Report [rivista indipendente sul Medio Oriente, ndt.]. I suoi articoli sono apparsi anche su “The National [rivista in inglese degli Emirati Arabi Uniti, ndt.] ed è commentatore del The New York Times.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jaber Suleiman è un ricercatore e consulente indipendente in studi sui rifugiati. Dal 2011 ha lavorato come consulente e coordinatore per il Forum di Dialogo libanese-palestinese presso l’Iniziativa per uno Spazio Comune, il progetto di supporto dell’UNDP [il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndt.]

sulla Costruzione di Consenso e Pace Civile in Libano. Tra il 2007 ed il 2010 ha lavorato come consulente per il programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano. È stato ricercatore ospite del programma di studi sui rifugiati dell’università di Oxford. È anche co-fondatore del gruppo e centro per i diritti dei rifugiati Aidoun e ha scritto numerosi studi riguardanti i profughi palestinesi e il diritto al ritorno.

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, scrittrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, Womanpower: The Arab debate on women at work [“Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro”] è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è coautrice di Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel [“Cittadini ai margini: un ritratto dei palestinesi in Israele”] (I. B. Tauris). E’ stata capo redattrice del giornale con sede a Londra “Middle East magazine”, prima di aver ricoperto un incarico alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-condirettrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi, ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(traduzione di Amedeo Rossi)



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