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LA VOCE 1603 |
P R E C E D E N T E | S U C C E S S I V A |
La VOCE ANNO XVIII N°7 | marzo 2016 | PAGINA b - 26 |
259 accademici italiani per il boicottaggio delle istituzioni israeliane29 Gennaio 2016 Aggiornamento: Al 13 febbraio i firmatari dellappello sono 312. Invita accademici, ricercatori e dottorandi a firmare lappello COMUNICATO STAMPA Il lancio della Campagna Stop Technion chiede la sospensione di ogni collaborazione accademica con lIstituto Technion con sede a Haifa L’iniziativa italiana riflette una tendenza globale in costante crescita tra gli studiosi a prendere apertamente posizione in favore dei diritti dei palestinesi LItalia è uno dei principali partner militari e accademici d’Israele in Europa Per la prima volta un’associazione accademica italiana discuterà lappello palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni 170 accademici e accademiche provenienti da più di 50 università e istituti di ricerca italiani hanno firmato un appello nel quale si impegnano a boicottare le istituzioni accademiche israeliane. L’appello è stato lanciato in solidarietà con la campagna della società civile palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele fino a quando non si conformerà al diritto internazionale e ai principi dei diritti umani, e si ispira allanalogo movimento di boicottaggio contro lapartheid in Sudafrica. Si tratta della prima iniziativa italiana di boicottaggio accademico e rivela lesistenza di una solida corrente critica di studiose e studiosi allinterno delle istituzioni italiane che non sono più disposti a tollerare alcuna complicità con le violazioni israeliane del diritto internazionale e dei diritti umani. L’iniziativa nasce in risposta alle ormai note e ben documentate complicità delle istituzioni accademiche israeliane con la violenza di stato israeliana e alla totale mancanza di qualsiasi seria condanna da parte loro sin dalla fondazione dello Stato di Israele. Gli studiosi e le studiose hanno anche voluto mostrare solidarietà ai loro colleghi palestinesi che continuano a sopportare gravi violazioni dei loro diritti umani fondamentali e ad essere privati delle loro fondamentali libertà accademica. Liniziativa di boicottaggio ha esclusivamente come obiettivo le istituzioni israeliane, senza precludere collaborazioni individuali con colleghe e colleghi israeliani. Israele persegue la sua politica di espropriazione e di discriminazione sistematica contro la popolazione palestinese che vive nei territori occupati, dentro l’attuale Israele e in diaspora. Dopo quasi cinque decenni di occupazione militare e quasi settant’anni dopo la creazione dello Stato d’Israele, avvenuta in gran parte in seguito alla pulizia etnica della popolazione indigena palestinese (comprese le terre su cui sono state costruite istituzioni accademiche israeliane), la maggioranza dei palestinesi restano profughi, molti dei quali apolidi. Lappello firmato dalle studiose e dagli studiosi italiani si rivolge in particolare al Technion di Haifa per via del ruolo che l’Istituto riveste nel supportare e riprodurre le politiche israeliane di espropriazione e di violenza militare ai danni della popolazione palestinese. Un certo numero di atenei italiani ha stretto accordi di cooperazione con il Technion, tra cui il Politecnico di Milano e di Torino e l’Università di Cagliari, Firenze, Perugia, Roma e Torino. Gli studiosi e le studiose invitano le istituzioni italiane ei loro colleghi a sospendere ogni forma di collaborazione istituzionale con Technion, poiché è profondamente coinvolto nel complesso militare-industriale di Israele e direttamente complice delle violazioni del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi. Liniziativa italiana assume particolare importanza alla luce degli stretti legami che rendono lItalia uno dei principali partner militari e accademici di Israele in Europa. Laccordo di cooperazione militare tra i due Paesi prevede ricerca militare congiunta, esercitazioni e sviluppo di sistemi darma. Nel 2012, lItalia figurava come il principale esportatore europeo di armi verso Israele. La speranza è che altri studiosi italiani, europei e internazionali si impegnino in uno sforzo comune per garantire i diritti umani e la giustizia al popolo palestinese. L’appello italiano è solo lultima tappa di una serie di iniziative di studiose e studiosi che si sono pronunciati a favore dei diritti dei palestinesi. Negli ultimi mesi hanno firmato appelli simili oltre 500 accademici nel Regno Unito, 450 in Belgio, 200 in Sud Africa e 120 in Irlanda. Il numero di associazioni accademiche che sostengono lappello palestinese per il boicottaggio continua a crescere e annovera già l’American Anthropological Association, la National Womens Studies Association, l’American Studies Association, l’African Literature Association, l’Association for Asian American Studies, l’Association for Humanist Sociology, la Critical Ethnic Studies Association, la National Association for Chicana and Chicano Studies, la Native American and Indigenous Studies Association e la Peace and Justice Studies Association. A metà marzo, la Società Italiana di Studi sul Medio Oriente (SeSaMO) terrà una tavola rotonda sulla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d’Israele (PACBI) durante la sua conferenza annuale a Catania. Sarà la prima volta che unassociazione accademica in Italia discuterà pubblicamente delle campagne BDS/PACBI . Fonte: Campagna italiana per la revoca degli accordi con il Technion |
Territori palestinesi occupati: Airbnb dà il benvenuto in casa d’altridi Giorgia Grifoni L’appartamento di Oded, che offre 3 posti letto, un patio e una “vista panoramica sulle colline della Giudea”, sembra la sistemazione ideale per trascorrere qualche giorno in visita a Gerusalemme. Dotato di tutti i confort, a poca distanza dalla città vecchia e di proprietà di “un nativo gerosolimitano”, è la perfetta combinazione dei servizi offerti dal famoso portale di annunci Airbnb: relax, convenienza, privacy e contatto con la popolazione locale. Peccato che dietro la generica indicazione “Gerusalemme, Israele” si nasconda in realtà il “quartiere” di Armon Hanatziv, insediamento ebraico illegale dirimpettaio di Jabel Mukaber, nella Gerusalemme est occupata nel 1967 e mai riconosciuta come parte di Israele dalla comunità internazionale. Poco oltre la Linea Verde, a Tekoa, colonia illegale della Cisgiordania meridionale, Howard propone un’abitazione “dall’eleganza mozzafiato, in posizione meravigliosa al limite del deserto” per la modica cifra di 475 euro a notte più spese. Può anche organizzare un giro sul cammello nel deserto, se gli ospiti lo desiderano. L’indicazione geografica, che in questo caso non può lasciare alcun dubbio sull’eventuale “contesa” di territori, è Tekoa, Israele. Sono dozzine gli alloggi sul sito Airbnb venduti da coloni israeliani come se fossero nello Stato ebraico, ma che in realtà si trovano nei Territori palestinesi occupati. Non solo appartamenti strappati nel 1967 ai residenti palestinesi di Gerusalemme est, ma anche cottage con piscina in alcune colonie come Maale Adumim e Kfar Eldad e addirittura piccoli container negli avamposti sparsi in Cisgiordania, come Havat Gilad, che sono considerati illegali persino da Tel Aviv. La storia, pubblicata una settimana fa dal portale israeliano +972 mag e immediatamente ripresa dalla stampa araba, ha scatenato un coro di polemiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani israeliane e la condanna unanime al sito di alloggi online da parte dello spettro politico palestinese. “Chi prenota – si legge su +972mag – non sa che l’avamposto è stato costruito, almeno parzialmente, su terra palestinese rubata. Non c’è menzione del fatto che più di un abitante dell’avamposto sia stato incriminato per attacchi violenti (price tag) contro i palestinesi e le loro proprietà”. L’ANP è stata chiara: “Non è solo controverso – ha dichiarato il diplomatico palestinese Husam Zomlot ad al-Jazeera – ma è illegale e criminale. Il sito promuove proprietà e terre rubate”. Non si tratta solo di promozione, perché Airbnb è un servizio a pagamento, che richiede una commissione del 3 per cento agli affittuari e una compresa tra il sei e il 12 per cento agli ospiti. Eliminando ogni differenziazione tra le aree in cui è suddivisa la Cisgiordania [il sito usa le mappe di Google, ndr] non fa quindi distinzione, come fa notare +972mag, tra i territori sotto controllo dell’ANP e quelli sotto pieno controllo israeliano. L’autore dell’articolo spiega di aver tentato varie volte di contattare Airbnb sulla questione, senza ricevere risposta; quando a fare domande è stata la ben più famosa al-Jazeera, invece, un portavoce della compagnia si è affrettato a dichiarare che Airbnb segue “le leggi e i regolamenti” sui luoghi in cui può “fare affari” e “indaga sulle preoccupazioni sollevate in merito ad annunci specifici”, senza però precisare se in questo caso ci fosse un’indagine in corso. I coloni, da parte loro, rivendicano la loro presenza sul portale come se non ci fosse alcun indice di controversia: “Siamo estremamente orgogliosi – ha dichiarato al Jerusalem Post Miri Maoz-Ovadia, un portavoce del Consiglio Yesha degli insediamenti ebraici – della nostra fiorente industria del turismo, con centinaia di bed&breakfast unici, che offrono una vista mozzafiato e un servizio di classe mondiale”. “La Giudea e la Samaria [la Cisgiordania, parte del futuro stato palestinese riconosciuto da di 135 nazioni, ndr] sono la culla della civiltà giudaico – cristiana e milioni di persone le vogliono visitare. E noi li accoglieremo tutti a braccia aperte”. La vicenda va ad aggiungersi al faldone di irregolarità e abusi nei confronti del futuro Stato palestinese e della sua popolazione su cui da anni fa leva il movimento di boicottaggio internazionale per denunciare l’insostenibile situazione dell’occupazione israeliana. Un’occupazione tollerata a lungo dalla comunità internazionale, che però in questi ultimi mesi ha visto alcuni organismi cambiare rotta e imporre dei timidi paletti alle autorità israeliane, dopo il fallimento dell’ennesimo processo di pace sponsorizzato dall’Onu, la massiccia operazione contro Gaza dell’estate 2014 e l’esplosione della violenza nei territori occupati lo scorso ottobre: prima il riconoscimento simbolico dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, poi l’etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane e spacciate nel mercato europeo come “made in Israel” decisa da Bruxelles. Ora arriva la notizia di una risoluzione dell’Unione Europea, in agenda per lunedì prossimo, che andrebbe ad accentuare le distinzioni tra Israele e i territori palestinesi occupati da lei controllati: lo rivela il quotidiano israeliano Haaretz, citando fonti dello Stato ebraico e dell’Unione Europea. Stando a quanto svelato dalle fonti israeliane, a Tel Aviv il timore maggiore sarebbero le eventuali sanzioni che potrebbero colpire il business israeliano fuori dal suo territorio riconosciuto internazionalmente. Stando ad alcuni diplomatici europei, la risoluzione si propone di effettuare una distinzione esplicita tra Israele e “tutti i territori occupati da Israele nel 1967″, con lo scopo di “salvare la soluzione a due stati” e “la pace nella regione”. Tel Aviv, spiega Haaretz, ha già annunciato che darà battaglia. Non si è certo tirato indietro il premier israeliano Benjamin Netanyahu dallo scagliare la prima pietra: “Vi è una tendenza naturale nell’UE – avrebbe detto giovedì ai giornalisti, come riportato dalla Reuters – a puntare il dito su Israele e trattarla in un modo in cui non vengono trattati gli altri paesi, e in particolare le altre democrazie. Le persone si stanno difendendo dagli aggressori armati di coltelli che stanno per pugnalarli a morte, e quindi sparano a queste persone: sono davvero esecuzioni extragiudiziali?”. Fonte: Nena News |