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La VOCE ANNO XVIII N°7

marzo 2016

PAGINA 3

Il reddito minimo renziano: 40 centesimi al mese per le famiglie in povertà assoluta e con minori

Se vi dico che vi racconto delle storie voi cosa pensate? Che da una parte c’è la realtà e da un’altra parte, l’opposta, ci sono le storie che vi racconto. «Non raccontarmi delle storie» è notoriamente espressione equivalente a: «Non raccontarmi delle frotole». Però se vi dico che faccio dello "story telling" i più aggiornati fra voi mi apprezzeranno per la mia conoscenza della più raffinata fra le attuali tecniche di management della comunicazione. Ma quello resta. Narrativa. E la narrativa è letteratura. Quando è ben fatta. Se ha una sua logica interna nello svolgimento e una coerenza nel racconto. Una sua "struttura", per usare una parola tanto cara a me, appassionato lettore di Genette, di Foucault, di Barthes.

Ma se sono parole disadorne, giustapposte e non coordinate come le renziane sono, senz’altra ragion d’essere che il turlupinare la Nazione, a che serve "raccontare delle storie"? A vincere le elezioni? Nel Paese degli stolti, forse, dove vige quel che i latini chiamavano "argomentum stultorum", cioè a dire che una cosa vale non per quel che è ma per chi la pronuncia. Se una fesseria sesquipedale la dicono un Presidente del Consiglio o il suo Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali è per ciò stesso meritevole di attenzione.

Ma non voglio credere che questo argomento possa valere in Italia, o quantomeno per la maggioranza degli italiani, perché sarebbe la fine.

L’ultima favola governativa è l’annuncio del piano che prevede un reddito minimo di 320 euro per tutti gli indigenti con figli. La riforma partirebbe dal prossimo anno, il 2017, epperò già da quest’anno, siccome a Palazzo Chigi sono buoni, solerti e comprensivi, verrà stanziata la munifica cifra di 600.000 euro, che spalmata sul milione e 470mila famiglie povere dell’ultima rilevazione Istat fa 0,40 centesimi a nucleo familiare.

Spiega il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali Giuliano Poletti che l’intenzione è quella di «dare a tutti la possibilità di vivere dignitosamente». Quaranta centesimi a famiglia. Mi verrebbe da scrivere cose orribili, a volte lo faccio ma questa è troppo grande. Sarebbero troppo orribili.

Comunque è del tutto evidente che tenersi questo Governo un giorno, un pomeriggio in più è pazzia.

A presto. Edoardo Varini - (03/02/2016)

Chiesa e pedofilia: grosso guaio in Vaticano


Il film di Tom McCarthy, “Il caso Spotlight”, arriva in Italia in uno dei periodi più controversi della lotta alla pedofilia clericale annunciata dalla Chiesa di Bergoglio.

di Federico Tulli - (18 febbraio 2016)

Massima trasparenza e tolleranza zero. Da tre anni sono le parole d’ordine di papa Bergoglio quando c’è di mezzo la storica e drammaticamente attuale questione della pedofilia nel clero cattolico. Ma queste parole corrispondono a fatti concreti? L’occasione per capire a che punto è l’opera di rinnovamento della Chiesa guidata dal pontefice gesuita è venuta in questi giorni da due vicende scollegate tra loro, almeno in apparenza.

Della prima è stato protagonista nella totale indifferenza dei media italiani un alto esponente della Compagnia di Gesù, monsignor Tony Anatrella. «I vescovi non sono obbligati a denunciare gli abusi sui minori compiuti da preti» ha tuonato il prelato francese dal pulpito del Pontificio Consiglio per la Famiglia di cui è consulente in qualità di psicoterapeuta. Di fatto negando uno dei capisaldi della Lettera circolare pubblicata il 3 maggio 2011 dalla Congregazione per la dottrina della fede con l’obiettivo di suggerire la traccia da seguire da parte di tutte le diocesi del mondo nelle rispettive Linee guida antipedofilia. «L’abuso sessuale di minori – si legge al punto 1e) della Lettera della Cdf – non è solo un delitto canonico, ma anche un crimine perseguito dall’autorità civile.

Sebbene i rapporti con le autorità civili differiscano nei diversi paesi, tuttavia è importante cooperare con esse nell’ambito delle rispettive competenze. In particolare, va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale. Naturalmente, questa collaborazione non riguarda solo i casi di abusi commessi dai chierici, ma riguarda anche quei casi di abuso che
coinvolgono il personale religioso o laico che opera nelle strutture ecclesiastiche».

L’esternazione di mons. Anatrella è stata rilanciata dalla stampa in (quasi) tutto il mondo occidentale – dal Guardian al Washington post – proprio nelle ore in cui si consumava una clamorosa rottura all’interno della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori creata da papa Francesco nel 2014. Dopo diversi mesi da separato in casa, uno dei membri laici, il britannico Peter Saunders, è stato messo in “aspettativa” per “meditare” sul contributo che può portare alla Commissione. Qual è il compito specifico di questo organismo lo ha spiegato lo stesso Francesco all’atto della fondazione: «.... sarà quello di propormi le iniziative più opportune per la protezione dei minori e degli adulti vulnerabili, sì da realizzare tutto quanto è possibile per assicurare che crimini come quelli accaduti non abbiano più a ripetersi nella Chiesa».

Come riporta Repubblica, la decisione di allontanare Saunders, che in patria svolge la professione di avvocato di vittime di sacerdoti pedofili, è legata alle sue critiche nei confronti del cardinale George Pell. Dalla scorsa primavera il super ministro vaticano dell’Economia è accusato da Saunders di sottrarsi con dei certificati medici agli interrogatori della Commissione governativa australiana che deve far luce sugli abusi nel suo Paese d’origine, riguardo alla gestione dei sacerdoti colpevoli o sospettati di pedofilia nella diocesi di Melbourne, quando Pell ne era l’arcivescovo. Tuttavia l’avvocato inglese non è stato il solo a puntare il dito contro la scarsa propensione di Pell a fare chiarezza sugli scandali pedofili di cui si è macchiata la Chiesa cattolica australiana. Emiliano Fittipaldi nel suo libro inchiesta “Avarizia” (Feltrinelli) racconta di diversi mal di pancia scoppiati nell’entourage di papa Francesco quando il pontefice argentino ha chiamato Pell a ripulire l’immagine internazionale della Chiesa sporcata da decenni di gestione opaca (in alcuni casi criminale) delle finanze vaticane. Data la fama che si porta appresso dall’emisfero australe, per alcuni confidenti di Bergoglio Pell non sembra la persona più indicata a riflettere nel mondo l’immagine di pulizia e trasparenza che richiede un ruolo del genere.

Tutti elementi inducono a pensare che, sebbene la commissione antipedofilia sia stata presentata urbi et orbi come un chiaro segnale di discontinuità rispetto ai pontificati precedenti, la Santa Sede ha ancora delle notevoli contraddizioni interne da risolvere.

A cominciare proprio dalla svolta rispetto al passato, come si evince da un’affermazione di Saunders: «Nulla è cambiato in questi anni in termini di trasparenza quando in Vaticano si devono affrontare casi di abusi su minori» ha detto l’avvocato durante la conferenza stampa di “commiato” dalla Commissione che si è svolta a Roma il 6 febbraio.

Con questo scenario sullo sfondo va sottolineata la tempistica con cui la Bim distribuzione porta nelle sale italiane “Il caso Spotlight”. Candidato a sei Oscar e tre Golden globe, il film di Tom Mc Carthy esce giovedì 18 febbraio. Spotlight era il nome della squadra di giornalisti del Boston Globe che nel 2001 indagarono su alcuni casi di pedofilia segnalati in precedenza anche al giornale e mai finiti nel mirino dell’autorità giudiziaria. Per mesi i coraggiosi giornalisti, guidati da un direttore per nulla intimorito dalle pressioni più o meno velate di illustri abitanti della città più europea e cattolica degli Stati Uniti, intervistarono le vittime, passando in rassegna migliaia di pagine di documenti fino a scoprire anni di insabbiamenti da parte delle gerarchie cattoliche guidate dal potente arcivescovo Bernard Law. Il 6 gennaio 2002 la svolta. Dopo aver sistemato tutti i tasselli, il Globe apre con il primo articolo dall’eloquente titolo a nove colonne: “Church allowed abuse by priest for years”. Alla fine del 2002 si conteranno altri 600 articoli, in cui furono ricostruiti circa 1000 casi di abusi psicofisici nei confronti di altrettanti bambini da parte di 70 preti della diocesi di Boston. Su tutti spicca padre Geoghan, ucciso in prigione nel 2003 dove si trovava per una condanna a dieci anni, al quale sono attribuiti ufficialmente 130 stupri.

Lo scoop, che nel 2003 fruttò il Pulitzer al Boston Globe, fu per la Chiesa cattolica americana l’equivalente del Watergate. Non solo costò il posto a mons. Law che ammise di aver nascosto per anni gli abusi dei suoi sacerdoti, ma dette la forza a migliaia di vittime rimaste in silenzio e isolate dalla Chiesa di cui si fidavano ciecamente (questo genere di abusi avviene quasi sempre all’interno di ambienti profondamente religiosi) di denunciare quanto subito alle autorità civili. Emerse così che l’insabbiamento delle segnalazioni e il trasferimento dei sacerdoti sospettati di pedofilia erano la norma negli Usa. Ben presto, grazie alla lezione universale di giornalismo realizzata dall’inchiesta Spotlight e magistralmente ricostruita da Mc Carthy, si scoprirà che lo stesso accadeva da decenni anche in Europa, Australia, Sud America e Africa.

Una lezione ignorata a tutti i livelli in Italia se pensiamo che la Conferenza episcopale in piena sintonia con mons. Anatrella e ignorando il suggerimento della Cdf di cui si è parlato all’inizio, nelle proprie Linee guida antipedofilia stabilisce che i vescovi italiani non sono obbligati a denunciare i sacerdoti pedofili alla magistratura. Perché? «Per tutelare la privacy delle vittime» ha spiegato senza imbarazzo il capo della Cei, card. Bagnasco, il 30 marzo 2014. Una presa di posizione che finalmente la Pontificia commissione antipedofilia si è decisa a criticare, con inspiegabile ritardo, proprio in queste ore. “Abbiamo tutti la responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili che hanno il compito di proteggere la nostra società” si legge in una nota diramata il 15 febbraio dall’organismo presieduto dal cardinale di Boston, il cappuccino Sean Patrick O’Malley.

A tal proposito, tra i tanti meriti de “Il caso Spotlight”, nel cui cast troviamo Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Stanley Tucci, c’è quello di aver reso con estrema precisione l’idea di quanto sia importante la trasparenza nella gestione dei casi di abusi clericali e al tempo stesso quanto sia distruttiva per la salute psico fisica delle vittime qualsiasi strategia “istituzionale” che non vada in questa direzione. In questo contesto, occorre ribadirlo, la pellicola di Tom Mc Carthy dimostra quanto sia decisivo il ruolo di un’informazione libera e indipendente. Ma non solo.

La chiave per capire come i giornalisti di Spotlight siano riusciti a sbaragliare il potentissimo avversario sta nel fatto che si sono posti con un approccio laico, affettivo, nei confronti dei loro interlocutori sopravvissuti alle violenze. Vale a dire senza innalzare la barriera del giudizio morale che scatta con il pensiero religioso fondato sulla convinzione violentissima che sia il bambino (cioè il diavolo che sarebbe la sessualità umana) a indurre in tentazione l’uomo di fede. Una idea perversa che annulla la realtà del bambino (che non ha sessualità, la dimensione psicofisica che si realizza nella consapevolezza di sé con la pubertà), e che da un lato ha sempre alimentato il senso di colpa e di oppressione delle vittime riducendole al silenzio e dall’altro ha fornito alla Chiesa cattolica la giustificazione ideologica su cui poggia la garanzia di impunità ai pedofili in tonaca e crocifisso al collo.

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