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La VOCE ANNO XVIII N°6

febbraio 2016

PAGINA g         - 35

Il mondo in mano
all’1% di super miliardari

Andrea Baranes il manifesto 19.01.’16
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Rapporto Oxfam. Si allarga sempre più velocemente la forbice tra ricchi e poveri. La metà delle proprietà sono concentrate nei portafogli di 62 persone. Lo studio arriva alla vigilia del forum di Davos

Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.

Sempre secondo il rapporto An economy for the 1%, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.

Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.

In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.

L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.

È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).

Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.

A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.

I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.

–> Firma la petizione di Oxfam contro i paradisi fiscali.

"Capital the Cannibal".
Recensione al libro
di Domenico Moro

Das Kapital. Senza patria né Dio, tampoco legge. Solo Il Profitto. È Das Capital. Cambiato il cambiabile; mutati i tempi, i luoghi, i trasporti, la tecnica, la tecnologia, le macchine, le imprese, le mode, le città, le campagne, le armi, i telefonini, le monete, i governi, i regimi, l’Urss, ecc ecc., lui non é cambiato, Das Kapital. Il Capitale.
Certo, non siamo nel 1845, ai tempi dell’inchiesta di un certo Engels sulla condizione della classe operaia inglese durante la rivoluzione industriale; ma provate a far cadere anche di un millesimo il suo sacro “saggio di profitto” e vedrete cosa sarà capace di fare, Das Kapital: fuoco e fiamme, guerra, golpe, carestia, devastazione, genocidio, terrorismo…Ieri come oggi.
Anche oggi? Anche oggi, al nostro tempo così evoluto, occidentale, democratico e amerikano, al tempo della celebrata globalizzazione?
Ebbene sì. Il Capitale è Il Capitale, e lui “non può” riformarsi. Perciò, se mi permettete, vi consiglio di mettere via Stephen King e di andare a comprare e soprattutto leggere il nuovo libro di Domenico Moro – <Globalizzazione e decadenza industriale>, Imprimatur, pag. 249, € 16 -. Non certo un giallo, come dice il titolo stesso, anzi un testo che, strettamente e scientificamente, tratta solo di poltica ed economia; ma che nondimeno è carico di suspence e di horrror, appunto come un vero thriller. Capital the Cannibal.
Ide, mai sentito parlare? L’acronimo sta per “Investimenti destinati all’estero” e immagino che anche voi come me cadete dalle nubi. Che sarà? Lo spiega bene Domenico Moro. Vuol dire che i capitali italiani <vanno ad acquistare partecipazioni o intere imprese all’estero, invece di essere investiti per ammodernare e ampliare gli impianti nel nostro Paese>. Di conseguenza, <in Italia non si genera nuova occupazione, non aumenta la produttività e si perde reddito>. Così accade, per esempio, che oggi <la Fiat, il maggior gruppo manufatturiero italiano, ha spostato all’estero non solo gran parte delle sue produzioni, ma anche la sede legale, in Olanda, e qualla fiscale, in Inghilterra>. E così accade che <tra un quarto e un quinto della capacità manufatturiera del Paese é andata persa>. A Das Kapital conviene così, Il Massimo Profitto Possibile lo richiede…
E il Ttip (Trattato di partenariato transatlantico per gli investimenti) e il Ttp (Trattato di partenariato transpacifico), a che diavolo servono? Servono – ovviamente sotto strategia Usa – alla <realizzazione di blocchi commerciali con l’Europa e il Giappone e Paesi della sua area>. Cioè, in parole povere, sono, <trattati progettati ad hoc per le grandi imprese globali, le quali, grazie all’abbattimento delle barriere tariffarie, e specialmente non tariffarie, saranno facilitate>…Anzi, padrone in casa altrui. Mercé <controllo della moneta mondiale> e <imperialismo valutario>.
Nel tempo della globalizzazione. Mi cade l’occhio su una pagina del recente libro uscito a cura di Marcello Musco (“Prima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo unitevi!”, Donzelli editore), che riporta l’ “Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale dei lavoratori” a firma Karl Marx, 1 novembre 1864. E che così inizia. <Operai! È un fatto innegabile che la miseria della massa dei lavoratori non è affatto diminuita dal 1848 al 1864, in un periodo che pure può essere considerato straordinario per uno sviluppo senza esempi dell’industria e per l’aumento del commercio>. Centocinquantanni fa. E pare oggi, al tempo della globalizzazione, quando lo sviluppo di industria e tecnologia è tale che potrebbe garantire vita e benessere all’intero pianeta.
Ecco gli ultimi dati dell’Istat, anno 2014, riportati nel libro di Moro, pagina 211. <Il numero dei disoccupati è raddoppiato, passando da 1,5 milioni del 2007 ai 3,1 milioni nel 2014. Inoltre, il numero degli individui in povertà assoluta è passato da 1,9 milioni nel 2005 a 4,1 milioni nel 2014, cioè dal 3,3 al 6,8 per cento; mentre quello degli individui in poverta relativa passa da 6,4 a 7,8 milioni, cioè dall’11,1 al 12,9 per cento>.
Niente di nuovo, infatti. <Ciò a cui si assiste è il rialzo dei profitti del vertice capitalistico, sempre più integrati con il capitale internazionale, al prezzo del peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della società e della stagnazione di lunga durata dell’economia>.
Sono arrivata a pagina 101 del libro – si descrivono i sei fattori principali (copyright Marx) che garantiscono al Capitale l’assoluta sicurezza del Massimo Profitto Possibile, tra i quali i ben noti aumento dello sfruttamento, riduzione del salario, creazione dell’esercito di riserva industriale formato dai disoccupati - quando mi cade l’occhio su un titolo del “Corriere”, pagina 27, 7 gennaio 2016, che dice: “Statali e licenziamenti. Senza art.18 risparmi per 1 miliardo” .
Ovviamente, “i risparmi” , come sempre sono sulla nostra pelle. Dicesi anche Jobs Act…Niente di nuovo. Fatevene una ragione.
Oggi il neoliberismo – cioè l’espressione politica-ideologica del capitalismo globalizzato – deve disfarsi anche del fardello del Walfare State, giudicato <non più sostenibile>, secondo la legge ferrea del Massimo Profitto Possibile (e tanti saluti a Keynes).
Il libro di Moro è un lungo e documentato excursus di delitti e misfatti, eseguiti a regola d’arte (anche via euro, provvidenziale moneta ad hoc…), impeccabili e spietati. Capital the Canniba. Ora e sempre.

A meno di imboccare un’altra strada, radicalmente diversa. Per esempio – sostiene Moro – che lo Stato diventi <espressione degli interessi della collettivita>; e, tra l’altro, che la gestione dell’intervento pubblico <includa la partecipazione e il controllo dei lavoratori>.

Non sarà mica socialismo o (“peggio” ancora) comunismo?

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