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E il suo protetto, il ministro delle Finanze, Yuval Steinitz, che promette: «Non andremo al macello come agnelli un'altra volta» durante un dibattito a proposito del rapporto Goldstone. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello, l'operazione Piombo fuso. Per gli Israeliani oggi tutto ciò forma un tutto, un'unica storia, l'eredità ininterrotta di una virtuosa posizione di vittima.
La verità è che lo Stato d'Israele non è mai stato una vittima, e il fatto di assimilarci ai 6 milioni è stato imbarazzante sin dall'inizio - ma ora? Dopo quel che abbiamo fatto a Gaza? Con la presa di possesso che abbiamo su questa società, mentre noi viviamo qui liberi e tranquilli? Vittime? Agnelli al macello? Noi? No, e questo è diventato molto più che imbarazzante, è assolutamente vergognoso.
E malgrado le nostre scuse, non è vero che siamo «traumatizzati» dal passato nella convinzione di essere sempre ebrei deboli, impauriti, impotenti, sul punto di essere condotti alle camere a gas. Molti sopravvissuti dell'Olocausto ne sono ancora convinti e, in una proporzione molto limitata, questo resto di paura occupa ancora l'animo israeliano.
Ma ora, 64 anni dopo l'Olocausto, 42 anni dopo aver vinto con la guerra dei Sei Giorni, da quel punto noi siamo diventati forti, noi sappiamo - che lo ammettiamo o no - di non essere più le vittime. Sappiamo di non essere la continuità dei 6 milioni, anzi ce ne allontaniamo deliberatamente, puramente e semplicemente.
La ragione per cui ci diciamo e diciamo al mondo di essere le vittime, è perché sappiamo - che ne conveniamo o no - che la condizione di vittima rappresenta un potere. La condizione di vittima è la libertà. Non si può chiedere ad una vittima di contenersi.
Una vittima che si batte per la sua sopravvivenza non può essere accusata di abusare del suo potere perché, dopo tutto, essa è con le spalle al muro, è disperata.
Guardando i fatti, è molto difficile convincere noi stessi, e a fortiori convincere gli altri, che Gaza e i suoi Qassam avessero messo la fortezza Israele con le spalle al muro, che fossimo disperati, che combattessimo per sopravvivere. Per convincerci e per convincere il mondo che era davvero così, facciamo due cose.
Primo: rifiutiamo di riconoscere il minimo fatto che contraddica quest'immagine che ci presenta come vittime, anzi ripetiamo continuamente tutto ciò che è conforme a quest'immagine. Noi parliamo unicamente delle migliaia di Qassam lanciati su Sderot; non menzioniamo mai le migliaia di abitanti di Gaza che abbiamo assassinato nello stesso tempo. Noi parliamo unicamente di Gilad Shalit; non menzioniamo mai gli 8 000 Palestinesi che teniamo in prigione. Non parliamo mai del blocco che manteniamo su Gaza, né della devastazione che provoca sulla sua popolazione.
La seconda cosa che facciamo per convincerci e per convincere il mondo che noi siamo sempre le vittime, è di non uscire mai, ma proprio mai, dall'Olocausto - perché è là che noi siamo stati veramente vittime. Vittime come nessuno ne ha mai avute, vittime un milione di volte peggio degli abitanti di Gaza. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello. Vi ricordate di noi, il popolo dell'Olocausto? Non la superpotenza del Medio Oriente che avete visto combattere a Gaza. Erano i 6 milioni.
Allora, non potete biasimarci. Siamo immunizzati contro le vostre critiche. Noi siamo le più grandi vittime che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo disperati, allora non parlateci di calcoli sul numero degli uccisi, né di uso sproporzionato della forza, né di punizione collettiva. Noi combattiamo per la nostra sopravvivenza.
E' questo che diciamo a noi stessi e al mondo, e, visto quel che abbiamo fatto e che facciamo sempre a Gaza, ciò è diventato intollerabile. No, noi non siamo i 6 milioni. I 6 milioni erano degli ebrei impotenti, tre generazioni fa; non possiamo mascherare il nostro abuso di potere con la loro tragedia.
Invece, diamo uno sguardo, un vero sguardo critico su quel che abbiamo fatto e facciamo sempre a Gaza. Diamoci un vero sguardo critico alla specchio. E riconosciamo allora chi è la vera vittima, qui ed ora.
E, ancora più importante, chi non lo è.
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